Ci sono voluti anni e anni perché gli amministratori delle città maturassero la cultura della tutela e valorizzazione del centro storico, liberandolo dalle auto che lo invadevano e lo deturpavano. Ci è voluto poco perché quello spazio urbano tornasse prigioniero di altri ingombri. Non mobili, come le auto che si spostano e circolano; stabili stavolta, ben fissati al suolo, come pedane e gazebo di materiale vario attrezzati in funzione della ristorazione. Un autentico assalto a privatizzare aree esterne, contigue ai locali da ritrovo, agevolato dall’esenzione di tassazioni per effetto dell’emergenza pandemica. E l’occupazione è stata totale: centro storico, centro commerciale, periferia, trasfigurati in una mensa pubblica diffusa. La città già post-industriale, e post-moderna, riconvertita a vantaggio del settore economico trainante: il turismo. Che non è proprio quello del viaggiare e visitare per istruzione o svago soggiornando un certo periodo, come in un passato non tanto lontano.

Se mai è un «gran turismo», prendendo a prestito un’espressione dell’automobilismo sportivo su strada relativo a spider e coupé veloci. Velocità accomunata a turismo; da esercitare soprattutto nell’arco dei due giorni di fine settimana. Un turismo veloce, mordi (lo dice la parola) e fuggi, che si basa sul cibo, sull’offerta culinaria. Disponibile a tutte le ore per visitatori spersonalizzati, uniformati dallo stesso fine. Il mondo è gastronomico: lavorare per mangiare e dar da mangiare. Si viaggia, si fa la vacanza in posti estremi, ci s’incontra, si sta insieme… per concedersi bevute e cibarie. Le libagioni che si allestivano sulle sacre tavole degli altari, si apparecchiano sulle profane tavole dei dehors, elemento architettonico omologante degli agglomerati urbani contemporanei.

Cosa sortiscono queste mangiatoie continue che chiamiamo città? Sedie, ombrelloni, fioriere, transenne, si appropriano, con la logica della noncuranza, di strisce blu per parcheggi e strisce bianche per pedoni; ostruiscono scivoli per persone con disabilità e accessi a portoni, assediano sagrati di chiese, cingono di tavoli facciate di pregio monumentale. Pesante l’impatto sulla città: la sua conformazione è alterata, il suo odore di cucina estesa è nauseante. Per gli abitanti che ne subiscono la tendenza risulta difficile parlare di semplice disagio. La città tutta si abbruttisce. Estetica ed etica sono parole vuote, quanto meno desuete, che nessuno pronuncia perché nessuno ne conosce il senso. Le agenzie di promozione turistica puntano a sottolineare la tipicità enogastronomica di un luogo. Che il turista «visita»ma non lo vive, ne marca la presenza con gli aperitivi e il piatto alla carbonara, produce rifiuti e va a «visitare» un altro luogo. Per trovarvi la stessa carbonara spacciata per piatto tipico del luogo.