Copertina accesa, intensamente rossa, su cui si stagliano il grigiore di un teschio e una mezza farfalla gialla, con le ali maculate di punti verdi e neri, quasi coordinate di un volo e poi di un ritorno a terra, alla consunzione svolta dalla terra; Spoken Unsaid uscito per la Urtovox Records, è il nuovo splendido disco di Herself, una delle declinazioni del polistrumentista Gioele Valenti, in attesa che compaia ancora sotto forma di Juju per la Fuzz Club, quell’andamento un po’ kraut, un po’ africano che lo rende riconoscibile all’interno della scena psichedelica contemporanea.

MUSICISTA APOLIDE, versato in molteplici collaborazioni e contaminazioni tra rock, elettronica, neo-folk, tra cui Josefin Ohrn, Lay Llamas, ecc., Valenti-Herself ha curato anche il mixaggio (la modulazione degli arrangiamenti sempre così stratificati) di questo Spoken Unsaid (solido vinile in 180 grammi, dal suono smagliante) che conferma l’atmosfera estatica del precedente Rigel Playground (2018), qualcosa come un amore nato nel mezzo dei campi, coi prati fitti di sole e i covi dei ragni sotto gli strami, la farfalla che a un tratto piomba sulla viola. C’è sempre un dolce struggimento nella musica di Herself, una melodia sussurrata; un ripiegamento «cosmico» che viene dagli Sparklehorse, da Mercury Rev; lo slancio di una vitalità improvvisa, piena, eppure conscia del crepuscolo; e il sogno della musica che sfuma in ricordo, in lontananza, nel brusio del tempo che passa, la primavera che finisce.

IN EFFETTI all’antifona tutta strumentale e malinconica di Nostos Algos e al tono largo, mormorato di My Pills, segue l’inizio dell’estate, forse il brano più bello del disco: San Francisco Bay, dal ritmo incalzante, come una scorreria di chitarre acustiche, una gioia tenue, adolescente, sferzata dal vento della grancassa. Poi c’è Soul, ballata all’insegna della chitarra acustica che fa il paio con Disaster Love, con il canto struggente, distante, coalescente su una base di psycho-folk; e Sand, ulteriore bisbiglio acustico a cavallo tra il folk e la canzone esistenziale, arpeggiata. Chiude TVDelica, il brano più distorto, più rock del disco, che richiama We Were Friends, trionfo psichedelico anche in direzione della colonna sonora, con un frammento morriconiano, come un gocciare di silicone, di una sostanza colloidale che alla fine trascende in un’eco misteriosa, incantata.