Per celebrare i venti anni dall’inserimento del suo centro storico nella lista del World Heritage, il comune di Pienza ha organizzato una serie di incontri accomunati dallo slogan «Save the Beauty». Colpisce che la scelta del tema sia ricaduta sulla perdita della bellezza e la necessità di preservarla. Uno sguardo aperto e sensibile all’attualità, che ieri ha riunito Maria Andaloro, Ettore Janulardo e Andrea Bruno per discutere con il pubblico attorno a Bamyan, l’imponente santuario buddista incastonato fra le montagne dell’Hindu Kush e gravemente danneggiato dai talebani nel marzo del 2001.
Abbiamo raccolto il pensiero di Andaloro, docente di Storia dell’arte medievale presso l’università della Tuscia e specialista di iconografie e restauro.

Fino al 2001, chi si recava a Bamyan poteva ammirare due gigantesche statue di Budda datate tra il III e il V secolo d.C. Ora, del complesso roccioso resta solo il vuoto di due enormi nicchie. Da quel poderoso sfregio inflitto al patrimonio culturale dell’Afghanistan sono passati quindici anni. Eppure, ancora oggi assistiamo all’accanimento dei jihadisti dello Stato islamico su siti d’interesse storico e archeologico in Iraq e Siria. Si tratta della medesima forma di ideologia iconoclasta o tra le distruzioni dei Budda e, ad esempio, quelle dei monumenti di Palmira c’è una differenza?
I talebani che colpirono il santuario rupestre di Bamyan distrussero le statue dei Budda perché le denunciarono quale oggetto di idolatria. Ci fu una sorta di ufficiatura dell’atto iconoclasta. L’ideologia dell’Isis – che non è propria dell’Islam ma semmai di una corrente estremista che fa capo al sunnismo – sembra deteriorata rispetto alla «purezza» dei talebani. Allo stesso tempo, però, i seguaci di Al-Baghdadi hanno raggiunto un livello di «raffinatezza» che attraverso la distruzione dell’immagine mira ad annientare il simbolo che essa sottende, per poi rilanciare un messaggio con immagini di altissimo livello tecnologico e grafico. Il tempio di Bêl a Palmira rappresentava la memoria di un’epoca, di una civiltà altra e per questo motivo è stato fatto esplodere. È l’identità culturale di un popolo e dell’umanità intera a soccombere. Tuttavia, anche a Palmira si può parlare di un’iconoclastia specifica verso le immagini, in quanto la furia dell’Isis si è abbattuta sulle Torri funerarie ricche di bassorilievi, ritratti e dipinti. Nello stesso tempio di Bêl era presente un’importante decorazione pittorica. Bisogna poi riconoscere che questi atti si inseriscono in un contesto di guerra e sconfinano dunque nel vandalismo e nella violenza tout court.

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In seguito alle distruzioni, compiute in maniera estesa ed eclatante soprattutto a Palmira, la comunità internazionale pensa già a future ricostruzioni. È d’accordo?
Così come mi è venuto spontaneo dichiarare all’indomani del terremoto che ha ridotto in macerie Amatrice, sono contro la sostituzione. Io coltivo piuttosto un atteggiamento di «rammendo». I casi vanno ovviamente studiati uno per uno ma ricucire i tessuti architettonici che sono indeboliti o parzialmente distrutti è un gesto doveroso, mentre realizzare delle copie dei monumenti si addice più a una produzione holliwoodiana che a un’azione di salvaguardia della memoria. Nessuno si illude che ci siano mai stati monumenti intatti – da sempre il restauro fa parte integrante dell’opera antica – ma non dobbiamo arrivare al simulacro del perduto. Ciò che resta va ravvivato con il racconto e il dono del risarcimento morale. D’altra parte, penso che anche il monumento che si manifesta tramite l’assenza possa avere un forte impatto e costituire una via di accesso alla memoria. Nel caso delle Torri Gemelle, infatti, si è optato per accentuare il vuoto successivo al loro abbattimento e alle dolorosissime morti provocate dall’attacco terrorista del 2001.

Tra le ricostruzioni proposte per i Budda di Bamyan c’è stato un esperimento di proiezione con laser mentre per Palmira imperversano, da Londra a Roma, le ricostruzioni in 3D. Tali operazioni hanno un senso?
Le nuove tecnologie vanno utilizzate in modo intelligente e soprattutto, come l’emozionante esperimento cinese del 2015 a Bamyan, devono essere sfruttate in situ perché la suggestione del luogo d’origine è fondamentale. A Palmira, andrebbero progettate strutture museali dove fornire anche ai non addetti ai lavori gli strumenti per comprendere la realtà e distinguere ciò che è ancora tangibile da ciò che è stato inesorabilmente cancellato. La perdita, per quanto desolante, va accettata, è necessario per formare una nuova coscienza. Il corpo di Palmira era fatto di monumenti ora scomparsi ma anche quelle di prima, in fondo, erano rovine. Mi sembra irrispettoso voler a tutti i costi ricostruire i templi: un ulteriore accanimento nei confronti di una città straordinaria che viveva di luce.

In cosa consiste, dunque, la salvezza del patrimonio archeologico e artistico?
Nella chiesa di Santa Pudenziana, a Roma, c’è un’abside – ricavata da un ambiente di età romana – nella quale sfavilla un mosaico del V secolo. Al centro del mosaico campeggia la figura del Cristo in trono con gli apostoli e sul libro che egli tiene con la mano sinistra si legge «Dominus conservator ecclesiae pudentianae».
Il termine conservator, che appare solo in questo mosaico, identifica non un semplice salvatore ma colui che garantisce la salvezza nel tempo e per il futuro. Credo che questa testimonianza della reazione dei Romani al terribile sacco di Alarico del 410 sia una bella metafora per opporre alla violenza la lucidità di un pensiero lungimirante. Non si può soltanto subire e addolorarsi né possiamo credere di salvare la bellezza puntando sull’idillio e la facile retorica. Servono invece una consapevolezza dei valori legati al patrimonio e iniziative concrete per trasmetterlo a chi verrà dopo di noi.