Non era certo un uomo di sinistra, anzi, per certi versi, il suo nome continua a incarnare ancora oggi il mito di una «destra perbene», più immaginata dai suoi presunti adepti che esistita davvero nella storia del Paese. Nondimeno Indro Montanelli è stato a lungo considerato alla stregua di un’istituzione del giornalismo, e c’è chi si spinge a dire anche della cultura, italiane. Proprio per questo le sue dichiarazioni del 1969, rilasciate a Gianni Bisiach nel corso di una puntata dalle trasmissione televisiva L’ora della verità, racchiudono come meglio non si potrebbe il portato complessivo del volume che Francesco Filippi dedica ai conti che gli italiani hanno lasciato ancora problematicamente aperti con il loro passato più oscuro: Ma perché siamo ancora fascisti? (Bollati Boringhieri, pp. 256, euro 12).

AUTORE di una Storia d’Italia in ventidue volumi che nel corso di più decenni avrebbe venduto qualcosa come venti milioni di copie, forse l’«opera storica» più diffusa dopo i manuali scolastici, a più di vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e delle imprese coloniali dell’Italia, anche fascista, Montanelli raccontò sorridendo compiaciuto in quell’occasione delle sue «avventure durante la guerra d’Etiopia», bollata come un’azione sciocca e mal organizzata, e del suo «cosiddetto matrimonio» – il termine era di Bisiach – con una ragazza del posto di dodici anni; «Scusatemi, ma in Africa è un’altra cosa. E così l’avevo regolarmente sposata, nel senso che l’avevo comprata dal padre e che mi ha accompagnato insieme alle mogli dei miei ascari…».

All’incredibile racconto di Montanelli, reagisce in studio la giornalista e scrittrice femminista Elvira Banotti che lo incalza domandandogli se si rende conto di aver di fatto violentato una ragazza di dodici anni con la scusa che «in Africa queste cose si fanno», non ricevendo però alcuna risposta. Montanelli non capisce fino in fondo l’accusa che gli viene rivolta – lo stupro e la pedofilia – che più che indignarlo lo stupisce, «perché non è così che ha raccontato, prima di tutto a se stesso, questa parte della propria vita».

L’INCONSAPEVOLEZZA per il proprio ruolo in guerra, la mancanza di autocritica, a tratti lo smarrimento, dimostrati da quello «che all’epoca è uno degli intellettuali più affermati del Paese», offrono a Francesco Filippi, l’occasione per riflettere sull’egual grado di consapevolezza di centinaia di migliaia di italiani che a quelle e ad altre imprese belliche e coloniali dell’Italia fascista avevano partecipato. Fino ad affermare che l’atteggiamento di Montanelli rifletteva probabilmente un sentimento diffuso anche in buona parte della società italiana che all’epoca «non è stata ancora posta, né lo sarà in seguito, di fronte alle responsabilità del proprio operato».

Storico della mentalità e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Deina che organizza viaggi della memoria e percorsi formativi nelle scuole, Fillipi prosegue in quest’opera il lavoro intrapreso con Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri – e recensito su queste pagine il 30 marzo 2019). Se in quel caso si trattava di smascherare le molte «idiozie che continuano a circolare sul fascismo» e che hanno contribuito ad annacquare se non addirittura a legittimare agli occhi di una parte dell’opinione pubblica l’eredità del Regime, ora è al modo in cui gli italiani si sono raccontati attraverso il loro sguardo sul passato che il ricercatore volge l’attenzione. Con la consapevolezza che «i conti con la propria storia» sono prima di tutto la misura di una coscienza di sé allo stesso tempo civile, politica e morale.

IN TALE PROSPETTIVA, il piano dell’opera incrocia volutamente la storiografia e la cultura popolare, le querelle accademiche come i dialoghi cinematografici in un itinerario che si snoda dall’immediato secondo dopoguerra ai giorni nostri. Le diverse fasi della storia nazionale, e il loro intrecciarsi con il contesto globale a partire da quello della Guerra fredda e fino alla «seconda Repubblica», l’emergere di più culture antifasciste e di più letture del fenomeno – dalle impostazioni di Croce, Gramsci e Gobetti fino al confronto tra gli storici intorno alle tesi di De Felice e all’analisi della «guerra civile» di Pavone -, sono analizzate anche e soprattutto nel loro possibile impatto su una società dove, al di là di significative e consistenti minoranze, sembra essersi perpetrata una narrazione all’insegna del doppio registro degli italiani «brava gente» o «vittime» delle circostanze, ma di rado significativamente complici di crimini di massa o carnefici tout court.

Motivo per cui ancora oggi un film sul possibile ritorno di Hitler nella Germania contemporanea – Lui è tornato, tratto dal romanzo di Timur Vermes – è in grado di suscitare un ampio dibattito in quel Paese dove una simile prospettiva è inimmaginabile, mentre l’omologo italiano, Sono tornato, su un Mussolini catapultato dalla macchina del tempo nell’Italia odierna, non suscita alcuna riflessione o sincero allarme visto che non il fascismo, ma la sua aperta banalizzazione e un certo repertorio retorico che sembra ispirarvisi, non hanno mai davvero abbandonato la scena. Tornando anzi in primo piano in epoca di crisi.

IL TITOLO PROVOCATORIO dell’opera di Filippi, quell’«essere ancora fascisti» che in realtà va tradotto nel non essere mai diventati «convintamente antifascisti», interroga perciò quel tentativo di «mantenere pulita la memoria del Paese» non affrontando fino in fondo i crimini che il fascismo ha commesso anche grazie alla connivenza degli italiani, che ha finito per rendere per certi versi «invisibili» quegli stessi crimini, affogati nel mare di indifferenza che gli ha riservato una parte della nostra società. Probabilmente la più consistente.