In un libro importante uscito pochi anni fa, Un volgo disperso (Einaudi, 2019), Adriano Prosperi ha illuminato con raffinatezza l’immagine dei contadini elaborata dalle classi dirigenti italiane nel corso dell’800 attraverso il filtro dei medici condotti.

LA CELEBRE DEFINIZIONE di «classe oggetto», inventata da Pierre Bourdieu, deve essere considerata per Prosperi più che un’evidenza «una provocazione carica di risentimento» per la perdita di memoria da parte della storiografia «di quella che è stata la maggioranza assoluta della società preindustriale». Sono considerazioni care anche a Livio Vanzetto, primo direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza della Marca trevigiana, esperto di storia sociale e politica del «profondo Veneto» e autore di Rivolte di paese. Una nuova storia per i contadini del Veneto profondo (Cierre, pp. 304, euro 18). Le coordinate interpretative emergono già dal «glossarietto» in apertura.

«Nella lingua italiana – scrive Vanzetto – mancano talvolta le parole per parlare, in maniera non equivoca, dei ceti popolari». Da qui la necessità di inventarne delle nuove come: «cultura della sopravvivenza», categoria centrale per i «ceti subalterni che vivevano al livello di pura sussistenza»; patronage, da lui impiegata per indicare il complesso rapporto tra le comunità contadine e i loro patroni (proprietari terrieri, parroci e borghesia rurale); «Italia del 30%», rappresentata dalle minoranze nazionalizzate.

A quest’ultima corrisponde, a suo avviso, anche una storiografia che ha negato autonomia e originalità alla cultura popolare. La ricerca ribalta la tesi dell’eterodirezione delle masse per seguire i percorsi di quella «pedagogia della rivolta», con cui i subalterni avrebbero esercitato un condizionamento politico e culturale nei confronti delle élites.

SI INIZIA con «la notte di Sant’Andrea» di Cavasagra, nel trevigiano, quando nel 1907, di fronte alla minaccia di alcuni cambiamenti colturali, una rivolta spontanea ricorda alla famiglia dei Frova (provenienti dal milanese) i doveri del suo stato di protezione. La Chiesa condanna la violenza, ma di fatto si schiera con la comunità paesana, e con i suoi capifamiglia, nel gestire la mediazione. Si prosegue con la più complicata vicenda della rivolta di Badoere di Morgano nel 1920, che si sviluppa dentro il quadro delle lotte promosse dalle leghe bianche per il rinnovo dei patti agrari.

In questo caso, le violenze vengono stigmatizzate a processo attribuendone la ragione alla «follia della folla» e all’infiltrazione di elementi esterni, i «rossi». L’ideale della comunità pacifica che viene turbata dai forestieri torna anche nell’ultimo episodio analizzato: la rivolta dei «batòci», cioè i battacchi delle campane «sequestrati» nel 1957 dalla comunità di Sant’Ambrogio del Grion per protestare contro l’allontanamento del proprio cappellano.

I «BATÒCI» sono un bene comune per una società contadina che rivendica il diritto di scegliere i propri referenti con il mondo esterno. Sembra essere questa, del resto, una delle funzioni chiave del patronage: un istituto prima di tutto difensivo, talvolta con effetti progressivi, soprattutto se proviene «dal basso».

Viene da chiedersi se la borghesia rurale non abbia avuto maggiore successo di quanto pensa l’autore nel farsi portatrice di quelle ideologie assorbite e rivisitate dal cattolicesimo: dai comitati patriottici paesani, alla pedagogia dell’Azione cattolica periferica al richiamato spirito risorgimentale delle brigate partigiane durante la Resistenza. Se non altro, come bagagli di retoriche più o meno transitorie, superficiali e comunque soggette all’usura della secolarizzazione.

A RENDERE PIÙ DIFFICILE la questione contribuisce la barriera delle fonti, poche e spesso prodotte dai «protettori». Per fortuna c’è chi come Vanzetto, seguendo la scia della migliore storiografia sociale, non rinuncia ad impiegare tutti i metodi a disposizione per ritrovare la voce dei subalterni e restituire così ai ceti popolari autonomia e quindi anche dignità.