Tra le innumerevoli pubblicazioni dantesche che da mesi affollano gli scaffali delle librerie, l’elegante volume di Laura Pasquini «Pigliare occhi, per aver la mente» Dante, la Commedia e le arti figurative (Carocci editore «Saggi», pp. 285, € 24,00) occupa una posizione speciale. È raro infatti che la critica si interessi ai legami tra l’opera maggiore del poeta e la cultura artistica coeva, e non senza ragione: le fonti figurative si prestano assai meno di quelle letterarie all’esame di coincidenze rilevanti, che permettano di ipotizzare con qualche verosimiglianza un rapporto di filiazione. Pasquini si muove dunque, con piena consapevolezza, in un ambiente insidioso, avvolto dalla caligine dell’indeterminatezza, reso malcerto dalle suggestioni.
Lo sviluppo della ricerca non è tuttavia inibito da un eccesso di cautela. Soprattutto, l’indagine sulla memoria iconografica presupposta dalla Commedia conduce spontaneamente il discorso verso l’aspetto più complesso del linguaggio poetico di Dante: la trasmissione della verità in forma di immagine. Pasquini osserva in via preliminare che le «rappresentazioni figurative» fornivano al poeta «suggerimenti non esclusivamente di carattere estetico, ma anche … di carattere concettuale», il che è certamente vero, tanto più se si considera che la sensibilità medievale era estranea a un apprezzamento del valore formale in quanto tale. L’arte è per il Medioevo un modo di rappresentare la verità – l’unica verità possibile. E la rappresentazione della verità, in arte come in poesia, avviene «attraverso similitudini fittive» (Tommaso d’Aquino). Il problema, non marginale, è stabilire come possa sussistere una relazione di somiglianza tra le finzioni dei poeti e la verità: dove risiede il fondamento di questo nesso? E come se ne possono cogliere e razionalizzare le tracce?
Il caso dell’inferno dantesco, cui Pasquini dedica il primo capitolo del libro, è emblematico. Dante si allontana vistosamente dai teologi scolastici, che descrivono il regno dei dannati come uno spazio spoglio e oscuro, dominato da un unico elemento, il fuoco, che affligge le anime senza emettere bagliori. Anche la pluralità delle pene non ha riscontri, se non vaghi, nella teologia universitaria; è invece un tratto tipico dell’immaginario popolare, alimentato dalla fortuna figurativa dei giudizi universali. La prossimità dei versi danteschi al carattere ricorrente di queste immagini – l’impressionante varietà degli inferi – è palese; ma, di nuovo, come interpretarla? E quale significato attribuire, in relazione al problema della ‘somiglianza al vero’, alla sistematica contaminazione che Dante opera tra oltretomba cristiano e pagano?
I primi commentatori del poema non avevano dubbi. Le immagini dantesche, e in particolare quelle di più evidente derivazione classica, erano ricondotte all’antico e rassicurante paradigma dell’allegoria, che cristallizza il rapporto tra la finzione poetica e il suo senso sulla base di criteri dipendenti, in ultima istanza, dall’arbitrio dell’interprete. Meno semplice era invece motivare l’insistenza con cui il poeta invita a recepire in termini di immediata verità il suo racconto. Alcuni tra i più antichi commentatori – pochi, a dire il vero – proposero di intendere l’intera visione come un sogno allegorico, forzando così i limiti letterali del testo: il canto proemiale della Commedia descrive un risveglio (Dante era «pien di sonno» prima di ritrovarsi nella selva), non il preludio di un’esperienza onirica (occorre mettere in rilievo questo punto, poiché la lettura del poema come visio in somnio è oggi ingenuamente riproposta dal più loquace tra gli officianti del culto dantesco imposto dal centenario). Per altro verso, la scrittura di Dante rifugge l’enigma: la verità del testo non è solo annunciata, è anche rivelata attraverso un processo di autoesegesi. Che Gerione – indubbiamente la più «maravigliosa» tra le creature che popolano la prima cantica – sia la «sozza imagine» della «froda», ad esempio, è detto a chiare lettere. Ed è decisivo che lo svelamento non implichi, in questo come in altri casi, la retrocessione dell’immagine alle funzioni di un simulacro: Gerione conserva una piena vitalità narrativa anche una volta chiarito quale significato reca impresso in sé.
In altre parole, l’approssimazione delle ‘similitudini’ alla verità si dà nella Commedia tramite l’affermazione della natura essenziale delle immagini poetiche: la rappresentazione del vero tende a coincidere con la sua epifania. È del resto Dio stesso a offrirsi, nel pensiero cristiano, come un’immagine sensibile. Scrive Paolo di Tarso che Cristo è «immagine del Dio invisibile»; è quindi nell’incarnazione che i cristiani possono ritrovare, insieme alla propria originaria somiglianza con il creatore, anche la garanzia della rappresentabilità del mistero divino. Appare del tutto opportuno, pertanto, che Pasquini si soffermi sulle convergenze tra la figurazione dantesca del paradiso e i mosaici di Ravenna: nella visione beatifica che conclude il poema, le immagini condividono il valore ontologico delle icone bizantine. E non occorre supporre, come vorrebbe qualcuno, che ciò derivi da qualcosa di assimilabile, nella coscienza di Dante, a un raptus mistico effettivamente avvenuto. Anzi, può essere utile invertire la prospettiva: era probabilmente nell’altezza della propria fantasia, nell’eccezionale capacità prensile di cui essa dava prova, che il poeta riconosceva la presenza reale del divino.