La memoria fragile dell’amore
Teatro «Vangelo» è il nuovo lavoro di Delbono, una lettura contemporanea che suona come un urlo di libertà. Dopo l’anteprima a Zagabria debutterà in Italia a Roma il prossimo gennaio
Teatro «Vangelo» è il nuovo lavoro di Delbono, una lettura contemporanea che suona come un urlo di libertà. Dopo l’anteprima a Zagabria debutterà in Italia a Roma il prossimo gennaio
Chi si trovi a girare per la parte alta della città, a Zagabria, può imbattersi casualmente in un singolare museo. Sta nascosto dietro un’insegna appena visibile, sulla porta di strada. Si chiama «Museo delle relazioni infrante». L’idea di chi l’ha concepito è stata di raccogliere ciò che resta dopo la fine di una storia sentimentale, non le parole ma le cose. Povere cose, spesso imbarazzanti (la memoria è fragile, i rifiuti restano per sempre, ammoniva già Constanza Macras pensando proprio alla fine di un amore). Ed ecco che a sorpresa quell’idea prende imprevista concretezza su una scena. Un attore comincia a tirar fuori da un sacchetto una serie di oggetti che va enumerando mentre li lascia cadere a terra: il suo libro preferito, l’ultimo regalo di compleanno, l’ultima sigaretta fumata insieme… Sarà questa la chiave segreta dello spettacolo?
Siamo qui, nella cattolicissima capitale croata, per assistere alla prima uscita pubblica della nuova creazione di Pippo Delbono. Vangelo. Titolo impegnativo ma che trova subito spiegazione nel prologo parlato che, com’è ormai abitudine dell’artista, introduce lo spettacolo, lasciando allo spettatore il tempo di entrare all’interno del «racconto», dentro la sua logica extra-quotidiana. Qualche giorno prima di morire, la madre Margherita, fervente cattolica, gli aveva detto: Pippo fai qualcosa sul Vangelo, in modo da dare un messaggio d’amore, ne abbiamo tanto bisogno di questi tempi. E la memoria corre inevitabilmente al finale di Orchidee, lo spettacolo di due stagioni fa; all’immagine filmata fissa sulle dita ossute della madre morente che la mano del figlio accarezzava.
L’amore «cosi fragile» che sollecita Delbono nasce però da un gesto di ribellione. Contro i preti della sua giovinezza, con la loro paura del sesso, della felicità, della libertà; contro le loro chiese con i crocifissi che lo guardavano dall’alto facendolo sentire un peccatore. Le chiese che ancora l’opprimono con quei muri che ora si innalzano per bloccare altre persone che scappano.
E ne darà anche concreta evidenza con la parete di fondo che più volte si muove in avanti e si ritrae, in una sorta di moto ondoso che diventa simbolo e realtà concreta di una dimensione escludente. Sympathy for the devil, cantano i Rolling Stones mentre lui irrompe in scena facendo il diavoletto davanti ai dodici attori che hanno preso posto sul palco, immobili su una fila di poltroncine quasi a riprodurre in una congelata versione «borghese» l’iconografia dell’Ultima cena leonardesca. Ma li vedremo poi abbigliati in costumi anni Settanta, un po’ «hippies», che richiamano anche autobiograficamente un momento di liberazione, impegnati in una trascinante danza collettiva sulle note di Jesus Christ Superstar (il film di Norman Jewison è del 1973).
Opera contemporanea, definisce Delbono questa nuova impresa che si appoggia alle musiche composte da Enzo Avitabile ma non rinuncia, come si è visto, alla contaminazione con altre galassie musicali, da Alan Sorrenti alle Catholic girls di Frank Zappa, secondo un procedimento compositivo proprio del teatro di Delbono che è musicale (e danzato) prima ancora che verbale – e forse con qualche turbamento di un’orchestra di formazione «classica» per queste intromissioni.
È in realtà un’operazione complessa, quella prodotta da Emilia Romagna Teatro insieme a una pluralità di partner europei di peso. Il debutto nazionale si avrà a Roma, teatro Argentina, a metà gennaio del prossimo anno, con una versione «in prosa», priva cioè dell’orchestra e del coro nuovamente presenti nella versione «lirica» che andrà in scena al Comunale di Bologna a fine febbraio. Ci saranno invece, a Roma, almeno una parte delle attrici croate che a Zagabria hanno innervato la compagnia di Delbono. E qualcuna del resto, come l’esuberante Nina Violic dalla capigliatura fiammeggiante, sembra già perfettamente a suo agio in una «performatività» assai lontana dalla «tradizione» del teatro di casa.
Il Teatro nazionale croato di Zagabria ha sede in un imponente edificio ottocentesco che troneggia isolato su tutti i lati al centro della piazza intitolata al Maresciallo Tito, nella città bassa. All’interno, la sala a ferro di cavallo tutta rosso-e-oro, circondata da due balconate su cui staccano in rilievo statue femminili abbastanza discinte (sarà qualche musa?), non sembra grande in rapporto all’imponenza del complesso. Ma come tutti i grandi teatri della Mitteleuropa (qui l’influsso viennese è evidente), anche questo è una «fabbrica» che prevede una miriade di sale di prova, uffici, la mensa interna, gli spazi per tre compagnie stabili (prosa, opera e balletto) che lavorano pressoché a ciclo continuo. Con tutti i vincoli organizzativi e «sindacali» che si possono immaginare e che qualche attrito devono aver provocato di fronte alla creatività anarchica dell’artista ligure (la direzione artistica di Dubravka Vrgoc sta però aprendo le porte alla contemporaneità, si era proposta qui l’anno scorso anche Angelica Liddell con le conturbanti visioni del suo You are my destiny).
Che a Zagabria lo spettacolo sia ancora cucito con lo spago grosso, poco importa. La presenza dell’artefice al suo interno è forte, a tratti persino ingombrante, per coprire i passaggi ancora irrisolti. Va su e giù dalla platea. Urla la sua ribellione, anche ai riti del teatro. S’improvvisa violinista mentre sullo schermo di fondo le immagini danno evidenza fisica alla malattia che da qualche tempo gli fa vedere tutto doppio, sicché non distingue più il bello dal brutto, il santo dal colpevole – in un altro momento vedremo un gruppo di giovani africani immobili in una piantagione di mais, silenziosa immagine evangelica che non ha bisogno di parole.
Uno spettacolo ci vuole sempre molto tempo per finirlo, ha detto altre volte Delbono. Ma è un momento necessario, questo primo contatto con un pubblico, proprio per misurarne i punti di forza e le debolezze, perché da solo acquisti il giusto ritmo. Con l’emozione di partecipare a qualcosa di nascente.
Il Vangelo secondo Delbono non si sottrae al confronto con la parola evangelica, pur se di un Vangelo apocrifo si tratta, dove Pasolini s’incontra con Sant’Agostino. C’è il passo della lapidazione dell’adultera… Quello che dice:«non date le vostre perle ai porci…». Il discorso della montagna… Ponzio Pilato che chiede di scegliere fra Gesù e Barabba… La notte nell’orto del Getsemani… È un Vangelo che coniuga l’amore con la libertà e lì trova la sua libertà: solo la verità rende liberi, dice. Se questo Cristo ce l’avessero raccontato così… è la provvisoria conclusione.
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