Come se all’improvviso le avessero prosciugato parte del cuore, amputato un arto, eroso un pezzo del cervello. Non sapeva di averli, eppure adesso la sensazione che si porta dietro è quella immane di un vuoto.

Quando Zaira ha lasciato l’Etiopia, la terra dalla quale era venuta al mondo, era così piccola che la sua memoria stava ancora giocando a impilare i primi mattoncini di ricordi. È bastata una notte, un vento brutale di spari e di vetri frantumati, per spazzarli via in un lampo. Le hanno ucciso suo padre, gli zii, le hanno portato via il paese d’origine, la serenità dal volto di sua madre.

Così sono fuggite – lontano – lacerate da traumi che certo necessiterebbero accoglienza e conforto, nonché l’attenta empatia di cure post, da cui provare forse pian piano a intessere un nuovo filo di vita. Possibile trovare tutto questo in Italia?

Se lo è chiesta Enza Buono (già autrice, tra gli altri, di Quella mattina a Noto, 2008), con La nostra ultima estate, Giulio Perrone Editore. L’ossatura del romanzo, una appassionata variazione del “Mother/Daughter Plot”, infinita trama contemporanea delle madri e delle figlie, scrittrici e lettrici, ormai – dopo secoli di significativa rimozione – sempre più in luce, e qui tutta giocata grazie a una pregnante triangolazione con l’amica e compagna di scuola, Marcella, che di fatto rappresenterà per Zaira l’unica oasi affettiva di scambio paritetico in Italia, precisamente a Bari ( tra l’altro città d’adozione dell’autrice, siciliana d’origine).

Scrivo a te che sei stata la mia unica vera amica, perché ho bisogno di rivolgermi a qualcuno per dimostrare a me stessa e agli altri che ho vissuto in questo paese, che esisto”. Per Zaira dunque, migrante catapultata piccolissima in Italia, la scrittura, fin dalle prime note del romanzo, si manifesta come via d’accesso alla coscienza di sé, come graduale consapevolezza tattile della propria presenza nel mondo. Scrivere è un tastarsi nel buio prodotto dal non rispecchiamento, dall’esclusione sociale, un gesto fisico di riappropriamento di sé, ma al tempo stesso il luogo in cui l’esperienza dell’autrice e quella delle due donne da lei narrate – Zaira, appunto, sempre in prima persona, e l’amica occidentale, talora in prima talora in terza – potranno cercarsi, sfiorarsi e a tratti vicendevolmente illuminarsi. Fermo restando che l’impronta stilistica di Buono, un tocco pudico e rispettosamente partecipe, un impasto un po’ antico scevro da “parole della contemporaneità” e dunque temporalmente indefinito (siamo probabilmente nel decennio finale del secolo scorso, ma non ci sono tracce storicamente precise), più che a rivelare, tenderà a sottrarre e a testimoniare semmai l’esistenza di aree interiori reciprocamente inconoscibili, tanto di se stessa che delle sue personagge.

A Marcella, Zaira, divenuta adulta e madre a sua volta, rivolgerà lunghe lettere-diario, scandagliando a ritroso la vastità teneramente simbiotica del rapporto con la madre, oltre la bolla cupa del lutto e il deprivante contesto italiano, in cui più che l’ostilità aperta conosceranno lo stillicidio del respingimento sotterraneo, la falsa coscienza di tante donne occidentali rispetto al lavoro di cura – la madre si impiegherà come colf – il linguaggio ancora tristemente ammorbato da stereotipi sul colore della pelle. (Nonché, tra i compagni di scuola delle due ragazze, rigurgiti del rimosso coloniale tra i due popoli: le donne “negre” e le loro terre come “puttane”destinate alla violenza del conquistatore maschio “bianco”).

Contro tutto questo, a eccezione di Marcella e dei suoi – di cui il romanzo segue il parallelo evolversi dei vissuti – saranno sole, e se sull’Etiopia Zaira avrà soltanto indizi sparuti (il sapore del karkadè o i racconti dal Këbra Nagast), sarà sua madre stessa, con la sua presenza dignitosa e mai vittimistica, a incarnarla per lei. È per questo che i suoi interrogativi sul padre (sa solo che era un oppositore del regime), tra soggezione e labirinti di non detto, si infrangeranno innanzi al mistero inaccessibile del dolore materno. Ed è per questo che, a differenza di altre scritture di ricerca delle identità di matrice italo-africana – è il caso per esempio di Gabriella Ghermandi – non ci saranno risposte né catarsi attraverso la ricostruzione letteraria della memoria etiope della protagonista. Come un vuoto, una “dimenticanza”del romanzo, ma soprattutto come voragine radiante.

Allo stesso modo per Zaira non potrà esserci differenziazione dalla madre, se non a causa della lacerante repentina malattia e della morte di lei. Allora, accolta da una comunità pugliese per giovani africani in difficoltà, finirà di forgiare la sua solitudine, forzatamente scoprendo le sue capacità di adattarsi a una autonomia precoce. In tutto questo travaglio Buono le sarà accanto, filando per lei una scrittura vibrante e tesa, nutrita di amarezza e spietata disillusione, nonché irrorata della fertile reattività dell’invettiva (alla maniera di Gayatri Spivak o di Susan Sontag: contro ogni occidentale tentativo di azzerare il tracciato individuale in una subalterna storia collettiva). Zaira continuerà a studiare, conoscerà l’amore con un ragazzo della borghesia barese, presso la cui famiglia lavorerà come “istitutrice”, e se la gravidanza la coglierà impreparata e fragile, “oggetto” da espungere definitivamente, saprà mutare quell’evento in una occasione per distanziarsi per sempre dal contesto. Andrà altrove, dapprima ancora in Italia, poi grazie alla forza del suo lavoro agirà un futuro completamente altro per lei e per il figlio.

Pure non scorderà mai il calore magnifico di quell’ultima estate, in tre con Marcella, sotto il sole consolante della Sicilia e quel mare che apriva il cuore di sua madre, come il lago Tana.