William Guerrieri, ideatore con Guido Guidi del progetto d’indagine Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, è anche fotografo e, in questa veste, si è dedicato sin dal 1991 all’identità degli spazi pubblici e al tema della memoria, anche attraverso il riutilizzo di immagini vernacolari. Il dibattito contemporaneo sulla fotografia documentaria ha attualizzato il suo lavoro. Guerrieri, da un lato, sembra riconoscere i limiti della fotografia come esperienza diretta in un’epoca dominata da immagini apparentemente accessibili e decodificabili, dall’altro, la rivendica come esperienza antropologica di specifiche culture legate ai luoghi, alla loro storia, alla loro politica.
A questi temi, William Guerrieri ha dedicato il saggio «Attualità del documentario», appena pubblicato nel libro Luogo e identità nella fotografia italiana, a cura di Roberta Valtorta (Einaudi).

È difficile resistere alla tentazione dell’inizio: come è arrivata la scelta della fotografia?

Penso che sia utile a volte ripensare agli inizi, forse lì si trovano ancora alcune motivazioni autentiche riguardo il proprio lavoro. Ho iniziato tardi, dopo i trent’anni. Prima mi sono interessato di arte e di performance in luoghi pubblici, sotto l’influenza di Franco Vaccari, che è stato mio insegnante di fisica al biennio delle superiori. È nato in quel momento il mio interesse per l’arte surrealista e dadaista. Dopo l’impegno politico della metà degli anni Settanta, è solo con la metà degli anni Ottanta – avevo visto la mostra Viaggio in Italia a Reggio Emilia – che arrivo alla fotografia.

L’interesse per i luoghi pubblici risale all’inizio degli anni ’90, in quel decennio molti artisti e fotografi hanno affrontato il medesimo tema. Alcune immagini conservano negli ambienti qualcosa della nostra quotidianità, sebbene all’interno di una rappresentazione distaccata: ambulatori, scuole, palestre. È una stratificazione dell’Italia dal dopoguerra fino a quell’angolo di corridoio del periodo fascista che è pubblico, ma diventa ricordo privato per averlo attraversato… Come si sviluppa la necessità di attingere alle immagini di archivio?

Nei primi anni Novanta ricordo gli interni di alberghi inglesi di Alessandra Tesi e gli interni di edifici di architetti famosi di Luisa Lambri, che partecipò con me alla mostra Passaggi, curata da Antonella Russo nel 1997. La mia serie di interni, che va dal 1991 al 1994, comunica una sensazione di disagio dovuto all’identità incerta del luogo. In molte immagini non si comprende dove ci si trova, in quale spazio pubblico, mentre i colori e gli arredi hanno carattere normativo, ambiguo, non sempre interpretabile. Vi è un’apparente visione oggettiva.
Le fotografie sono molto descrittive, a differenza di quelle di Lambri, ma non restituiscono la certezza di trovarsi in un determinato luogo. Sono spazi spogliati d’identità, di storia e rimandano a una determinata condizione della modernità, che potremmo definire forse surmodernità, o postmodernità. Questo lavoro mi ha, quindi, spinto a produrre una seconda ricerca, dal titolo Identità di gruppo, sul riutilizzo di immagini trovate in pubblicazioni a carattere locale, notiziari di associazioni di volontariato (Avis, Arci, polisportive), presenti in Emilia-Romagna.
Fotografavo queste immagini (non esisteva ancora l’uso abituale dello scanner) e le modificavo in alcuni aspetti (l’inquadratura, il colore, la messa a fuoco), fino a ricomporle insieme a testi, provenienti dagli stessi periodici di informazione locale per farne qualcosa di diverso, che potesse aprire uno squarcio di realtà sul fenomeno dell’aggregazione spontanea di adulti, attorno a tematiche che avevano a che fare con il vivere civile, l’identità, il gruppo solidale.
Questo lavoro entrava in relazione perfetta con il precedente, quello degli spazi pubblici. Se nel primo si perde l’identità del luogo, nel secondo la si cerca e se ne mettono a nudo alcuni meccanismi. Decisi pertanto di presentarli insieme in una mostra accompagnata da una pubblicazione dal titolo Oggi nessuno può dirsi neutrale.

Joan Foncuberta nel suo libro «La (foto)camera di Pandora» sostiene che la fotografia non scompare come modello del visivo, né come cultura: subisce semplicemente un processo di «deindicizzazione». La sua rappresentazione si affranca dalla memoria. L’oggetto si assenta, l’indice evapora. È molto vivace oggi il dibattito contemporaneo sullo statuto delle rappresentazioni e della fotografia documentaria… Ma cosa si intende esattamente con questo termine?

Non c’è dubbio che la fotografia sia icona e indice, come ha chiarito bene J. M. Schaeffer nel suo L’immagine precaria. Questa naturale ambiguità della fotografia, che la rende un’immagine fragile sul piano interpretativo, va accettata e può essere considerata una vera e propria risorsa, oltre che un limite. Stephen Shore ha parlato più volte di questo limite come una risorsa. Affermare che è solo indice o solo icona, forza la natura stessa della fotografia.
Lo si può fare per fini propri, ma non lo si può sostenere sul piano teorico come fanno, ad esempio, Claudio Marra o Luca Panaro. La migliore fotografia documentaria conosce quest’ambiguità e ne fa uso nel suo complesso rapporto con la realtà.

Uno dei tuoi lavori recenti «Il Villaggio artigiano» è trattato come una sorta di museo della civiltà contemporanea. E come ci ricorda Antonello Frongia nel suo testo: «le immagini trovate, in quanto oggetti desueti e relitti del passato, continuano a emanare parte dell’aura che le avvolge ma non diventano pretesto per una speculazione nostalgica o surreale dell’objet trouvé (…). Il fotografo non è destinato a morire, ma a mediare, discutere, interrogare».

L’affermazione di Frongia, fatta su questo lavoro è una bella definizione sulla natura della fotografia documentaria, che ho cercato di utilizzare al meglio in questo progetto. Trattandosi di una realtà industriale o postindustriale, mi è parso opportuno cercare di utilizzare un approccio modernista, anche in questo caso accompagnato da un recupero di immagini dell’epoca inserito nel progetto espositivo e nella pubblicazione.

Parallela alla tua attività di fotografo, c’è quella di direttore e curatore di Linea di Confine che possiamo definire uno dei punti di riferimento per la cultura fotografica in Italia. Sembra strano, adesso, pensare che alcuni tra i più grandi fotografi contemporanei siano passati dalla sede di Rubiera, un piccolo comune vicino a Reggio Emilia. Oggi LdC pare un progetto irripetibile. La politica che importanza ha avuto?

Hai detto bene, forse oggi irripetibile. Linea di Confine è stata possibile per il convergere di diverse forze, sia intellettuali che culturali e politiche proprie dell’Emilia Romagna. In fondo l’idea era quella di portare nel locale un progetto artistico di livello internazionale, cosa che avvenuta anche in altre parti d’Europa, per esempio con il progetto inglese Photoworks, che per certi aspetti è stato molto simile al nostro. Si tratta di una vicenda tipica della provincia emiliana, che fra gli anni Settanta e ancora Novanta ha saputo produrre grandi progetti culturali. È evidente come tutto questo sia oramai finito da tempo, in particolare è cambiato quel rapporto fra politica e intellettuali, che ha avuto un ruolo importante nella politica culturale dell’Emilia-Romagna.