viareggio DSCF6384
La piccola stazione di Viareggio nel primo pomeriggio è semideserta, sulle banchine assolate qualche raro viaggiatore in attesa seduto sulle panchine bianche di marmo, l’aria di desolazione degli scali di provincia. In alto, oltre il groviglio di cavi e fili, oltre i binari che corrono verso l’orizzonte, svettano le Alpi apuane, quelle montagne che a Fosco Maraini facevano pensare alla creazione del mondo.

LÌ INCONTRO Riccardo Antonini, il ferroviere licenziato perché s’è offerto di fare gratuitamente il consulente per l’associazione dei famigliari delle 32 vittime della strage del 29 giugno 2009, quando deragliò il treno merci 50325 Trecate (Novara)-Gricignano (Caserta) diretto a Castel di Principe, destinato all’Aversana Petroli della famiglia Cosentino, con quattordici carri cisterna contenenti Gpl che sferragliavano sulle rotaie a una velocità di 90 chilometri orari e dal primo carro-merci si sganciò una cisterna che prese fuoco.

È alto e magro, capelli e barba argentati, un paio di occhiali con lenti scure. Mi mostra lo scambio 5 b, quello che viene definito «zampa di lepre», dove il treno è «sviato». Di fronte, protetta da una gabbia metallica, l’imponente cisterna arrugginita sembra un cetaceo dormiente. «Dopo quattro minuti – dice – il Gpl è bruciato ed è divampato l’incendio laggiù» fa mostrandomi un gruppo di piccole case con gli intonaci dalle tinte pastello sulla sinistra della rete ferroviaria, oltre un muro grigio di cemento decorato dai murales, che quel giorno non c’era, nonostante i cittadini del luogo avessero più volte chiesto di metterlo a protezione delle abitazioni firmando già una petizione nel 2001.

«Vedi – sostiene ancora mostrandomi il binario – lì il locomotore si è sganciato, la prima cisterna si è ribaltata, poi si sono sviluppati incendi ed esplosioni che hanno investito quella parte, tutte le abitazioni sono state avvolte dalle fiamme. Fortuna che dopo una lunga e faticosa vertenza sindacale siamo riusciti a mantenere personale di sorveglianza durante la notte, altrimenti ci sarebbero stati altri morti». Infatti, il capostazione dopo l’incendio riuscì a bloccare manualmente un regionale e un intercity, prima che i due convogli finissero anche loro nel rogo.

IN QUESTA STAZIONE periferica alle 23,48 di quella notte si scatenò un inferno, quando la caldaia saltò in aria le colonne di fuoco investirono cinque abitazioni bruciando le automobili parcheggiate, propagandosi velocemente sull’asfalto e arrampicandosi selvaggiamente sulle facciate degli edifici. Bruciarono anche le traversine di legno, i cavi elettrici e di trasmissione, le sterpaglie abbandonate lungo la ferrovia. Le immagini scattate il giorno dopo dall’elicottero sono spaventose, come una zona di guerra dopo un bombardamento. Tetti sfondati e mura squarciate, interni sventrati e anneriti dal fumo, ceneri indistinte ancora fumanti lungo i binari e tra quello che resta degli edifici.

Come tutte le tragedie anche questa è una storia di sommersi e salvati. Un uomo coraggioso, Rolando Pellegrini, prende di peso la moglie anziana da poco operata alle gambe e con la forza della disperazione la trascina da una porta laterale prima che crolli tutto, qualcuno riesce a scappare, come Adriana Cosci, che col marito Paolo Crivello sentono il botto del treno che deragliava e riescono a fuggire sul tetto, una donna avvolta dalle fiamme come un bonzo corre in strada urlando a squarciagola cercando di strapparsi i vestiti di dosso, un grosso pezzo di metallo colpisce frontalmente un uomo e lo scaraventa a terra uccidendolo. «C’è un signore che non si muove sdraiato in strada. C’è fuoco ovunque, vi prego mandate qualcuno», urla al telefono una donna. «È esploso un treno alla stazione», grida una voce disperata alla centralinista del 118 quella notte. Una palazzina, dove vivono 18 persone, crolla, sbriciolandosi.

TRA I MORTI DI VIA PONCHIELLI anche il giovane marocchino Hamza Ayad di 16 anni, che in un’altra abitazione era riuscito a sopravvivere liberandosi tra le macerie, ma era voluto tornare indietro, vagando tra le fiamme e il fumo denso, per portare in salvo la sorellina Iman di 3 anni. Purtroppo non ce l’ha fatta, il gas lo ha soffocato, e ha perso i sensi prima di riuscire a trovarla. Sono morti entrambi, insieme ai genitori Aziza e Mohammed, di 46 e 51 anni. L’anziana Angela Monelli invece è stata colta da infarto per lo spavento, mentre la ventunenne Emanuela Menichetti si trovava per caso nell’abitazione della sua amica e collega di lavoro Sara Orsi, stavano giocando a carte sul letto quando sono state travolte dalle fiamme. Alle tre del mattino i genitori ricevono una sua telefonata dall’ospedale Cisanello di Pisa, dice «sto bene, non mi sono fatta niente», poi, ustionata al 98%, va in coma per via di una infezione, e morirà dopo 42 giorni di agonia.

L’ULTIMA AD ANDARSENE è Elisabeth Silva Teran Guadalupe, di 36 anni, originaria dell’Ecuador, che resistette fino al 22 dicembre, sei mesi dopo la tragedia, deceduta quando pensava già che sarebbe sopravvissuta.

Marco Piagentini, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime «Il mondo che vorrei» si è salvato, ma ha subito sessanta interventi di chirurgia estetica e ha perso la moglie e due figli piccoli, di due e quattro anni; il primo arso vivo dentro la sua auto mentre stava cercando di metterlo in salvo, l’altro rimasto bruciato mentre sua madre lo teneva stretto in braccio. Il terzo restò intrappolato per ore sotto le macerie, protetto da un materasso, ma riuscì a scampare alla tragedia. «Pensa, un uomo che passava in motorino dalla parte opposta, è morto perché è scattato il rosso del semaforo», racconta ancora Antonini rattristato mentre passeggiamo lungo la banchina. Rosario Campo faceva il falegname, aveva 42 anni, fu avvolto dalle fiamme e morì carbonizzato per uno scherzo del destino.

«Noi l’abbiamo sempre chiamata strage. Si è trattato di un incidente sul lavoro che si è trasformato in un disastro ferroviario e ha provocato la strage con 32 morti», precisa il ferroviere che per aver sposato la causa delle vittime offrendosi gratuitamente come consulente ha perso il posto di lavoro nel novembre 2011.

TUTTO COMINCIÒ il 30 giugno di due anni prima, il giorno dopo la strage, quando proprio in questa stazione ascolta l’amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato Mauro Moretti che dice a un funzionario: «D’ora in avanti dobbiamo controllare tutto quello che viene dall’estero», lasciando intendere che prima di allora non veniva fatto, un quotidiano lo riporta; mentre nel corso di una riunione nella sede della Regione Toscana a Firenze, sempre il manager dice del ferroviere ribelle: «Quello lì primo o poi lo licenzio».

Ma lo scontro continua durante l’incidente probatorio, quando Antonini litigò con i legali di quello che poi era diventato ad di Finmeccanica. «Dissi che la colpa era dovuta alla manutenzione, che non veniva più fatta, che era mancata la sicurezza». Fuori dalla gabbia metallica trecento persone inferocite che gridavano, lanciavano oggetti e battevano contro la rete. Per lui il frutto di scelte strategiche dell’azienda che in 25 anni ha ridimensionato il personale da 224 mila a 68 mila unità, cominciate quando Mario Schimberni, allora a capo di Fs, introdusse il concetto di «sicurezza relativa».

«Invece per la strage di Viareggio i legali delle Ferrovie hanno invocato il “Cigno nero”, un evento che si può prevedere solo a posteriori, capisci?», dice indignato mentre ci spostiamo sulla banchina del secondo binario. «Dopo è arrivata la diffida per conflitto d’interessi, alla quale non ho ottemperato, sono stato sospeso dieci giorni, poi il licenziamento», confermato dalla Cassazione solo una decina di giorni fa.

MA LUI ANCHE QUESTA VOLTA non ha fatto una piega, «sono un militante politico, sono nato nei partigiani, quando i famigliari delle vittime mi dicevano che stavo rischiando troppo, che non era giusto, rispondevo loro che un licenziamento rispetto a 32 vittime ci deve far sorridere, magari fossero stati 32 licenziamenti».

A Moretti, che sprezzante aveva detto che l’incidente era stato solo «uno spiacevole episodio», minimizzando in modo disumano l’accaduto, gli aveva mandato a dire ironizzando che il suo licenziamento spiacevole lo era veramente, ma risolvibile, «gli ribaltai la storia», dice ora soddisfatto.
Più tardi raggiungiamo via Ponchielli, dove è avvenuta la strage. Adesso le piccole case, strette una sull’altra, sono state tutte ricostruite a qualche centinaio di metri di distanza.

Davanti, dove si trovavano prima, c’è il prato verde rigoglioso, dove sono stati piantati 32 alberi, e al centro il cippo in marmo bianco di Carrara con dentro incisi tutti i nomi delle vittime innocenti, 23 italiani, 7 marocchini, due ecuadoregni e un rumeno. Poco più avanti c’è la Casetta della Memoria, intitolata a due motociclisti dai soprannomi buffi, Pulce e Scarburato, morti nel rogo, un reliquiario laico con dentro oggetti appartenuti alle vittime: peluche e pupazzi, foto, un vecchio telefono in bachelite deformato dalle bruciature, alcuni manifesti funebri, i tanti articoli di giornale.

LA STAZIONE è stato il luogo della lotta e del ricordo, un luogo simbolico e teatro della protesta, occupata anche quando Moretti nel 2014 diventò ad di Finmeccanica nonostante le pesante accuse e un processo in corso. «Siamo venuti qui e abbiamo fermato un intercity. Gli agenti della Digos volevano bloccarci, ma ho detto non fate frullare i manganelli, tanto noi andiamo sui binari». C’era anche l’attore Paolo Rossi sopra quel treno, scese e fece un breve discorso solidarizzando con i manifestanti, poi risalì. E a due minuti alla mezzanotte tornano lì tutti i 29 del mese, «che piova o nevichi, freddo o caldo, noi si viene qui – dice commosso -, e l’ultimo treno che passa da Lucca fischia in segno di solidarietà».

IL REGISTA MARIO MONICELLI, molto legato d’affetto alla città, e da questa ricambiato prima di morire aveva scritto una lettera toccante ai parenti delle vittime: «Il Paese è allo sfascio, alla deriva e la strage di Viareggio esprime bene il declino dell’Italia. Quei trentadue morti sono lì a indicarci l’incuria, l’arroganza di chi governa. Mi chiedo ancora come si possa far passare a quella velocità un treno con esplosivo senza avvisare del suo passaggio, senza precauzioni, senza prendersi cura della gente».