Venti anni fa chiudevano in Giappone le miniere di carbone di Miike, luogo che nel bene e nel male ha fatto parte ed è stato scenario e cartina tornasole dei cambiamenti politici e sociali più importanti avvenuti nell’epoca pre e post bellica dell’arcipelago. Situate nella zone sud del Giappone fra le prefetture di Fukuoka e Matsumoto, le miniere, benché già attive nel diciottesimo secolo, subirono una sostanziale espansione durante il periodo Meiji (1868-1912), prima con la nazionalizzazione e poi passando alla Mitsui corporation, una delle grandi zaibatsu nipponiche, i grandi gruppi industriali e finanziari giapponesi fra fine ottocento ed inizi novecento.

Proprio sotto il controllo Mitsui fra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso, le miniere divennero di fatto le più grandi e importanti del Giappone fornendo il carbone necessario alla veloce modernizzazione del paese, il prezzo però, sia a livello ambientale che umano non fu certamente lieve. Soprattutto nel periodo di massima espansione dell’impero nipponico, prigionieri provenienti dalla Cina e dalla penisola coreana, ma anche da zone periferiche del Giappone, furono costretti a lavorare nelle due principali miniere che costituivano il complesso di Miike.

Gli avvenimenti che più di altri però sono rimasti legati al nome di Miike, sono le proteste e gli scioperi organizzati dai minatori nel 1959 e il 1960. Nel dicembre del 1959 Mitsui inviò una lettera ad ognuno dei quasi 1500 minatori con l’invito ad autolicenziarsi, il carbone come primaria fonte di energia infatti stava molto velocemente cedendo il passo al petrolio e di lì a qualche anno sarebbe stato siglato anche il «il patto col diavolo» con l’energia nucleare. I lavoratori in un atto di sfida bruciarono le lettere e la dirigenza li licenziò quasi tutti. Il braccio di ferro proseguì e nel gennaio dell’anno seguente fu proclamato il primo sciopero, e due mesi dopo vide la luce un nuovo sindacato. Ma il 29 di marzo, nel pieno di una lotta che fu denominata «contro il capitale», Kiyoshi Kubo, lavoratore impegnato in un picchettaggio, fu barbaramente ucciso da un membro dell’estrema destra nazionalista. Dopo un tentativo di ritornare a lavorare nelle miniere, nel luglio dello stesso anno, più di centomila persone manifestarono all’interno del complesso e in dicembre parte degli operai fu riassunta, ma molti altri vennero allontanati e negli anni successivi costretti a lasciare il lavoro, accettando risibili somme di denaro come contropartita.

Ancora tragedie segnarono le lotte di quegli anni: nel novembre del 1963 un’esplosione in una delle miniere provocò la morte di 458 lavoratori, e una grave intossicazione per monossido di carbonio ne colpì più di mille altri, lasciando su questi segni e strascichi gravissimi e di fatto distruggendone la vita. Molti minatori finirono infatti in coma per settimane subendo, a causa dell’avvelenamento danni cerebrali e pesanti menomazioni fisiche. Una tragedia simile ebbe purtroppo luogo anche due decenni dopo; nel 1984 furono 84 le vittime di un’esplosione e 4 nel 1997, determinando – come detto in apertura, la chiusura delle miniere.

La memoria di Miike e di quanto ha significato e rappresentato nella recente storia dell’arcipelago non è molto conosciuta, né in patria né all’estero, se non da chi si occupa di lotte sociali. La zona di Omuta, dove sorgeva la miniera più importante, ospita oggi un museo e alcuni edifici risalenti all’epoca d’oro sono stati mantenuti come traccia di una storia che per quanto periferica e marginale merita di essere ricordata.

matteo.boscarol@gmail.com