La memoria che si fa elemento collettivo va a depositarsi nei libri, nelle interviste, nei siti Internet, in ogni dispositivo che ci siamo inventati per fermare il tempo e lo svanire delle cose. La memoria personale è uno scrigno più appartato, e spesso chi evita di avvelenarsi la vita con dosi schiaccianti di narcisismo non vuole rivelare proprio tutto. Il rischio, qui, è che svaporino tratti leggeri, impalpabili, sfondi che sono più decisivi del primo piano, parole dette per caso, per affetto, per amore di un momento di bellezza. Flavio Brighenti, giornalista dello storico “Lavoro” di Genova, poi di Repubblica e di Musica non è persona che ami apparire ad ogni costo.

Però un giorno s’è messo a ragionare su un fatto: sono usciti decine di libri su Fabrizio De André, e per quanto si sia scavato a fondo, rimane, ad oltranza, un Faber di leggerezza fatata, un De André quotidiano e ironico che può raccontare solo chi ne ha incrociato le piste anno dopo anno, concerto dopo concerto, frase dopo frase. Per mestiere e per amicizia vera. Categorie che, rare volte, possono stare assieme. La prima volta nel ’79, quando Brighenti era un giovanissimo cronista innamorato del rock blues e non certo dei cantautori, l’ultima volta nel 1998, l’ultimo tour: neppure una parola, solo un abbraccio.

Così è nato Io, Fabrizio e il ciocorì, uno spettacolo per parole e musica che andrà in scena venerdì 20 e sabato 21 in prima all’Auditorium di Strada Nuova a Genova.

Sul palco con Brighenti ci saranno Laura Monferdini (il “cuore” di 29rosso di Via del Campo, negozio museo dei cantautori), Vittorio De Scalzi con la sua chitarra (era il ’68 quando i suoi New Trolls lavorarono con De André per “Senza orario senza bandiera) , Edoardo Romano ai fiati. Regia di Carmen Giardina, quest’anno tra i protagonisti del film Il contagio di Mattero Botrigno e Daniele Coluccini. Come in una girandola fantastica (ma è la vita stessa ad avere più fantasia dei visionari) scorrono riferimenti a Guy Debord e a papa Woytila, a Vasco Rossi e a Marx, a Beppe Grillo e a Ivano Fossati. Fritto misto alla genovese, e una rete calata a caccia di immagini, parole, baluginio di ricordi che ogni volta – precisa Brighenti- potrà accorpare figure ed elementi diversi ed imprevedibili, come deve essere per quel work in progress continuo che è la vita stessa, e uno spettacolo che attinge alla vita. Altro che “risposte” nelle “interviste”.