A partire dal primo luglio, il Ghetto di Rignano sarà dismesso grazie ad un piano presentato dall’assessore alla Cittadinanza Sociale della regione Puglia, Guglielmo Minervini: «Capo free – Ghetto off».

Forse la necessità di svuotare il Ghetto è dettata dalle ripercussioni mediatiche che, ogni estate, durante la raccolta dei pomodori, indignano migliaia di italiani in partenza per le vacanze. Oppure, per paura che, dopo Norvegia, Inghilterra e Francia, in seguito a servizi come quello che la Bbc ha recentemente dedicato al caso, anche altri paesi possano boicottare il pomodoro made in Italy per le disumane condizioni di schiavitù che migliaia di lavoratori stranieri subiscono quotidianamente. Una realtà fin troppo scomoda che potrebbe danneggiare l’export di prodotti agricoli pugliesi, proprio ora che si appresta a sostituire la Campania stuprata dalle ecomafie.

L’assessore specifica che non si tratta di uno sgombero, ma di «un percorso con la partecipazione di tutti, migranti compresi». Peccato però che nessuno si sia preoccupato per tempo di avvisare gli abitanti del Ghetto, che si sono trovati di fronte a un piano già stilato.

È importante sapere che il Gran Ghettó, come viene chiamato dai suoi abitanti francofoni, è solo una delle tante vergognose realtà che costellano la Capitanata. Esistono dozzine di enormi bacini di utenza, al di fuori delle leggi internazionali, dai quali attingere braccia per il lavoro nero.

Durante l’inverno il Ghetto ospita 300 persone. Tra queste c’è Mamadou, che viene dal Burkina Faso e ha 35 anni, 15 dei quali trascorsi in Italia. In passato ha svolto lavori di custode, cameriere, barista e giardiniere senza mai firmare un contratto di lavoro. Ha fatto lo stagionale ovunque ce ne fosse bisogno e, dopo tanti anni passati tra gli italiani, lavorando, mangiando e dormendo con loro, Mamadou è un fantasma, legalmente mai esistito, ufficialmente mai arrivato.

Oggi, a causa di un trauma alla spina dorsale, non può più lavorare nei campi. Nessuna buona uscita, nessun curriculum da aggiornare, nessuna pensione. Grazie ai suoi conterranei riesce ad avere un pasto al giorno, e riesce a curarsi grazie a Emergency. Se in passato avesse lavorato sotto contratto, oggi magari vivrebbe in una casa con acqua e luce, oppure sarebbe tornato in Burkina Faso, o forse avrebbe chiesto il ricongiungimento familiare. Di sicuro non vivrebbe qui, nel Gran Ghettó.

Mamadou siede su un vecchio materasso ammuffito, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Nella casa non c’è luce, i raggi di sole faticano a entrare dalle finestre murate. Le pareti, nere di fuliggine come il soffitto, non riflettono quel poco di luce che entra dalla porta. C’è odore di cibo speziato e puzza di plastica bruciata. Un uomo in penombra tossisce, indossa un cappello blu con su scritto «Uil – uniti nel lavoro». Entra qualcuno con indosso una vecchia giacca da controllore trenitalia. Mi saluta e prende una sedia di plastica bianca, nera di fuliggine anche lei. Lentamente la stanza inizia a riempirsi di uomini.

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Foto Alessandro Tricarico

Fossimo in Germania negli anni ’50, si poteva parlare di Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», soprattutto di origine italiana e jugoslava. Solo braccia per i lavori più duri e meno qualificati. Lo scrittore Max Frisch proferì la famosa frase: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini». Eserciti di uomini bianchi che hanno vissuto in condizioni non molto diverse da Mamadou.

La piccola assemblea ha finalmente inizio: alcuni sanno già che il Ghetto verrà smantellato il primo di luglio. La paura più diffusa è che andare via da questo posto significhi perdere quei pochi agganci lavorativi maturati negli anni. Pensano che trovare un lavoro, anche se tramite caporale, sia meglio che morire di fame. Le aziende lo sanno, a riprova del fatto che il caporalato è solo il figlio dell’attuale modello produttivo. Nel 2011 è stata realizzata una legge che inserisce il reato di caporalato nel codice penale, senza menzionare i titolari delle aziende. Quindi se ad esempio un’azienda assolda un caporale, che a sua volta recluta lavoratori senza permesso di soggiorno, e a fine stagione, anziché pagare il caporale, il titolare decide di autodenunciarsi. i lavoratori verranno rimpatriati, il caporale affronterà un processo penale, mentre il proprietario dell’azienda se la caverà con una sanzione amministrativa e l’esclusione da agevolazioni e finanziamenti per soli due anni.

Invece di inasprire le pene, la Regione Puglia ha deciso di realizzare delle liste del lavoro, utilizzando un fondo di 800 mila euro sotto forma di contributi per le aziende: 500 euro al mese per ogni assunzione tramite liste per un periodo di 156 giornate lavorative nel biennio, oppure un incentivo di 300 euro per lavoratore assunto per almeno 20 giorni. Incentivi in denaro per rispettare la legge, alimentando così il teorema tutto italiano secondo il quale: fatta la legge, trovato l’inganno.

L’accoglienza dei migranti, invece, si differenzierà in base alla permanenza sul territorio. Gli stanziali prenderanno parte a progetti non ancora chiari. Grazie a un fondo di circa 500 mila euro verranno finanziati «progetti sperimentali e innovativi» che prevedano la manutenzione di alloggi su suolo demaniale, con il pericolo che la criminalità organizzata, con navigata esperienza nella speculazione edilizia, partecipi alle ristrutturazioni.

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Foto Alessandro Tricarico

Invece per gli stagionali verranno allestite tendopoli della protezione civile, gestite dalle associazioni di volontariato. Cinque campi con capienza massima di 250 posti ciascuno, attivi dal primo luglio fino a fine settembre. Il rischio che queste tendopoli vengano presidiate per «motivi di sicurezza» e diventino dei Cara a cielo aperto è molto elevato. Non a caso, i centri di accoglienza sorgono spesso nelle vicinanze delle zone a vocazione agricola.

Foto Alessandro Tricarico

C’è bisogno che la regione si assuma tutte le responsabilità derivanti dallo smarrimento lavorativo che avverrà dopo la chiusura del Ghetto. Non si può credere che, dopo decenni di inadempienza e stallo politico, sia così facile passare un colpo di spugna sul Ghetto e sulle politiche perverse che hanno permesso la sua realizzazione. È necessario che ci sia la consapevolezza che da queste parti la corruzione e la criminalità sono tutt’oggi endemiche e ben radicate. Occorre rispondere con forza e attuare cambiamenti profondi, che possano intaccare l’ormai consolidata consuetudine politica che, a proprio favore e beneficio, sta protraendo da troppi anni la questione meridionale.

La schiavitù non si migliora, si combatte. Buon Primo Maggio.