Poco prima della fine dell’obbligo della mascherina nei luoghi aperti, la Società Italiana di Psichiatria ha fatto una previsione: per la persistenza di un assetto fobico molti avrebbero avuto difficoltà a smettere di indossarla. Si è verificato l’atteggiamento opposto: nel momento stesso in cui è finito l’obbligo, la mascherina è quasi sparita dalle strade. La reazione, dopo una lunga convivenza con uno strumento di protezione certamente oppressivo, era abbastanza fisiologica. Ciononostante l’abbandono di ogni prudenza (in presenza di un’infezione certamente meno pericolosa di prima, ma più contagiosa e comunque disturbante e perniciosa come malattia) ci interroga. La fine di una prescrizione non ci esonera dall’uso di una profilassi che può continuare a essere utile secondo parametri di valutazione e di responsabilità personali.

Il passaggio repentino da una reazione estrema -l’adesione passiva a una disposizione legale, priva di uno spazio interno di interpretazione- a un’altra -il distacco totalmente impulsivo, altrettanto privo di valutazione soggettivante, da ogni precauzione- testimonia il trionfo della resilienza. Lo stato di emergenza (non solo sanitario) e le continue alternanze tra l’intensificazione delle restrizioni e il loro allentamento, hanno favorito nei cittadini la configurazione di un assetto psichico gommoso che prima assorbe le tensioni e poi, alla prima occasione, le scarica. Questo tipo di resilienza è da sempre l’obiettivo “educativo” dei regimi illiberali nei confronti dei loro sudditi.

Gli psichiatri, a dire il vero, non avevano nella sostanza sbagliato dicendo che la mascherina sarebbe stato difficile toglierla. Non hanno collocato la loro intuizione nella giusta prospettiva: la mascherina sarebbe stata buttata via, la maschera interna (che essa aveva protetto, permettendole di costruirsi indisturbata) sarebbe rimasta.

La “maschera” ha un significato ambiguo perché da una parte rimanda all’espressività personale e dall’altra al coprire, rendere inaccessibile agli altri il proprio modo di essere. Ha una funzione espressiva “isterica” importante: consente di identificarsi con l’altro (assumerlo, transizionalmente, sperimentalmente dentro di sé) senza, al tempo stesso, rinunciare alla propria soggettività. Questa qualità dell’attore è presente, in forme meno spiccate, in ognuno di noi. Esprime la nostra capacità di “entrare nei panni dell’altro” e farsi ispirare dalla sua diversità per cogliere prospettive che ci spostano dal nostro centro di gravità. La maschera ci rende eccentrici al nostro modo di sentire e di fare socialmente adattato e consolidato e ci allontana da un senso di identità chiuso in sé, autoreferenziale. Non siamo “persone” se non all’interno di relazioni dislocanti (di oscillazione tra sé e l’altro) che istituiscono l’alterità come elemento co-costitutivo della nostra identità.

Nella direzione opposta la maschera è il risultato del nostro adattamento alle categorizzazioni comunicative sociali, agli stereotipi espressivi che ci rendono impersonali. In questo caso usiamo la maschera come pretesto non per comunicare qualcosa che espone la nostra diversità (e presenza reale) a quella degli altri, ma per sopprimere l’espressione della nostra particolarità che non può essere configurata se non a contatto con un’altra particolarità. Quando ci nascondiamo -nel senso di sottrarsi allo sguardo e al desiderio degli altri e non in quello di invitarli a relazionarsi con un aspetto inedito di noi- perdiamo la nostra interiorità (che vive solo nel suo sporgere irresistibilmente inclinata verso la vita) e ci appiattiamo su schemi comportamentali e mentali anonimi che ci rendono tutti uguali e amorfi. A un suo estremo la maschera interna copre il nostro sguardo, che ci apre al mondo, come maschera mortuaria. Il metaverso (la maschera del morto vivente) ci dice che l’autismo è in noi. Non nei bambini.