«È nella maschera che si rivela molto chiaramente l’essenza del grottesco» scriveva Michail Bachtin nel suo saggio sull’opera di Rabelais e la cultura popolare. E proseguiva: «Il motivo della maschera è quello più complesso e più ricco di significato della cultura popolare».

Il rapporto tra l’essere e l’apparire è antico quanto il mondo. Perciò manifestazioni un tempo ritenute a torto residui del passato, come ad esempio i Carnevali, continuano ad intrigare gli studiosi e gli antropologi e a smentire gli scettici apologeti delle magnifiche e progressive sorti della modernità. E anzi si può dire che proprio in un periodo di passaggio (quindi carico di pericoli) come l’attuale torna prepotente il bisogno di una nuova antropologia che si lasci davvero alle spalle la nefasta e ridicola ideologia, di impronta liberista, della «fine della storia» che ha imperversato alcuni anni fa ma di cui si fa fatica a liberarsi.

I bagordi si rinnovano

«Se vuoi giungere a Putignano, nel paese della festa e del Carnevale, dell’artigianato e della piccola industria, devi salire sulla schiena di colline ricoperte di ulivi, mandorli, ciliegi e di querce secolari che sopravvivono ai margini dei campi pettinati dai trattori; tra trulli, masserie e muri a secco che per un istante ti ricordano un popolo di formiche che non c’è più, perché travolto ormai da tempo dall’onda lunga del cemento e della modernità». Così racconta la cittadina pugliese Pietro Sisto nel suo volume Putignano è una festa e non c’è alcun dubbio che Putignano sia oggi una delle capitali del Carnevale. Uno dei luoghi dove la voglia di interrogarsi sulla «maschera» che ognuno di noi sente il bisogno di indossare per difendersi da una realtà troppo dura, è non solo presente ma si arricchisce ogni anno.

Perché resistono al tempo e ai cambiamenti della storia i miti e i riti del Carnevale? Perché non sono ributtati nella spazzatura del tempo che fu, come pure in tanti si sono azzardati a dire negli anni passati? E del resto, va aggiunto alla chiosa del libro di Sisto, non basta né l’uso distorto del cemento, né la modernità malata a cancellare tradizioni che ritornano e si rinnovano; a togliere le maschere, i bagordi, le abbuffate, la voglia di un risveglio di vitalità oggi pericolosamente assopito. Tutto continua invece e cerca di svilupparsi, con grandi contraddizioni naturalmente, organizzandosi per dare un senso culturale alto (cioè “basso”, ma il segreto è sempre quello di unificare cultura “alta” e “bassa”) alle cose.

621 anni di orgoglio

Il Carnevale di Putignano si vanta di essere uno dei più lunghi in durata (è iniziato a fine anno e chiude il 17 febbraio prossimo), con i suoi carri di cartapesta che sono dei veri e propri capolavori d’arte, con la sua lunga tradizione (è nato 621 anni fa) di cui va orgoglioso. Ispirata quest’anno ai sette vizi capitali, la manifestazione si immerge naturalmente nella realtà politica e sociale di una crisi devastante: si pensi, soltanto per stare al territorio pugliese, ai carri sul dramma dell’Ilva di Taranto, o, per andare in Europa, a quelli di satira della signora Merkel. Ma, da alcuni anni, il Carnevale di Putignano accompagna i riti carnascialeschi con convegni internazionali di studio e approfondimento che sono appuntamenti imperdibili per gli appassionati e gli studiosi.
Quest’anno il convegno si snoda tra Bari e la cittadina dal 12 al 14 febbraio con relazioni che abbracciano l’universo della maschera in rapporto ai linguaggi. Insomma una rinascita e un arricchimento che non deve però offuscare, non solo i problemi del futuro della manifestazione, ma anche la memoria di un tempo in cui sembrava che a Putignano tutto dovesse decadere. Invece tutto è rinato come prima o più di prima, e ritornano quindi ad aiutarci le vecchie parole di Michail Bachtin: «La maschera è legata alla gioia degli avvicendamenti e delle reincarnazioni, alla negazione gioiosa dell’identità e del significato unico, alla negazione della stupida coincidenza con se stessi. Essa è legata agli spostamenti, alle metamorfosi, alle violazioni delle barriere naturali. In essa è incarnato il principio giocoso della vita; alla sua base sta il rapporto del tutto particolare della realtà e dell’immagine, caratteristico di tutte le forme più antiche di riti e spettacoli».

L’arte popolare è stata studiata in lungo e in largo da tempo, ma ciò che manca davvero oggi, in un’epoca in cui il popolo, nell’accezione autentica del termine, sembra non ci sia più (ma c’è, c’è, naturalmente), sono le manifestazioni vere di quell’arte, gli uomini e le donne che hanno dato voce a un’espressione artistica al di fuori dei canoni estetici codificati o studiati.

E questo è il punto oggi: come valorizzare quelle espressioni popolari, come metterle al centro. Di più: come renderle “sgradevoli” non solo per la politica ufficiale ma per la cultura ufficiale. Non è facile e non sarà solo un’esposizione di carri e di sberleffi a renderla possibile.

Cercasi eredi trasgressivi

Si tratta di scavare nei ricordi e nei testi del passato per portare alla luce i tanti artisti di strada che hanno riempito un tempo le piazze e le strade dei nostri paesi e delle nostre città. Chi sono i loro eredi oggi? Quanta della cultura giovanile più trasgressiva che opera nell’underground potrebbe rivitalizzare (e ovviamente modernizzare) quella antica tradizione?

Senza dimenticare l’avvertimento di Domenico Scafoglio, studioso presente nel convegno di quest’anno: «Il Carnevale è un linguaggio simbolico, una trama di riti, allegorie, figure, che riempiono il campo visivo e quello sonoro, esercitando sulle persone una forza psichica possentemente coercitiva, che suscita desideri ed emozioni intense, e non può essere tradotta semplicemente in concetti, senza perdere la sua efficacia».