Il guasto viene da lontano. Non è solo questione di recenti segreterie del Pd, di ultime coalizioni di governo. Quando è cominciato negli anni Novanta, con un seguito nei Duemila, il girotondo di nomi e simboli, lì si è creato il primo accumulo di quel disorientamento politico di popolo che oggi è esploso. Già Partito democratico di sinistra non era una gran trovata. Poi è sparita la p di partito e sono rimasti i Democratici di sinistra. Poi, è ricomparsa la parola partito e però è scomparsa la parola sinistra. Seguivano improbabili simboli: la Quercia, con ai suoi piedi la bandiera del Pci presto rapita, e l’Ulivo e l’Unione e forse me ne sfugge qualcuno. Non solo si seguiva, ma si alimentava la brutta storia della pulsione antipolitica, proprio nella forma più violenta, quella dell’antipartito di principio. Quando quella parola si è recuperata nella forma del Partito democratico era perché la più che chiara ispirazione di modello americano la neutralizzava del tutto. Come organizzazione di partito, quell’esperienza lì, non a caso, non è mai nata.

NELLA FUORIUSCITA DAL PCI si doveva evitare prima di tutto e a ogni costo la scissione. Non si è diviso un partito, si è diviso un popolo. Ed era questo il vero tesoro del partito: il popolo comunista. Non si doveva dilapidare quell’eredità. È cominciata lì la vicenda devastante delle due sinistre, l’una contro l’altra armate sempre, perfino quando collaboravano. Una forza di sinistra non può derogare alla legge ferrea che dice: nessun nemico a sinistra. Se lo fa, inevitabilmente scivola in una perdita di identità perché consegna l’idea di sinistra ad altri con l’aggravante, nella quasi totalità dei casi, di affidarla a formazioni minoritarie. Il peggior affronto che si può fare all’idea di sinistra è ridurla a minoranza: che vuol dire condannarla a essere perdente. L’illusione che ha occupato la mente della gran parte dei post-comunisti che avevano ancora con sé la gran parte del popolo comunista è che, marcando la distanza da quella minoranza politica, avrebbero potuto conquistare la maggioranza con un altro elettorato, generico, aprendosi la strada al governo.

ADESSO POSSIAMO VEDERLO: è stato un guaio che questa illusione abbia avuto in qualche momento qualche effetto di realtà con le vittorie elettorali del centro-sinistra. Non ci si è accorti che si trattava di condizioni del tutto occasionali: la lunga, deviante e stancante stagione berlusconiana che non lasciava spazio a chiedere più sinistra, tutti occupati come si era a reclamare una union sacrée contro il corruttore delle genti. O ancora, l’emergenza della crisi economica, dal 2008 in poi, che imponeva governi di responsabilità nazionale, formula che ha segnato sempre un richiamo della foresta per i comunisti italiani. È vero: quell’indubbia esperienza di buon governo ha anche ottenuto risultati e poi ha fatto uscire il paese dalla crisi, ma come risolviamo il problema che così, anche così, si è consegnato lo stesso paese in mani che peggiori di queste è difficile immaginare? (…).
La radice dell’antipolitica di massa sta qui. E si esprime in questi due modi contrastanti e insieme complementari: l’astensionismo elettorale e la mobilitazione di piazza, reale o virtuale che sia. Ambedue forme di passività politica, fenomeno di passivizzazione popolare, perché protesta solo individuale che non fa presenza collettiva, non fa né società né comunità.

È L’ALTRA FACCIA del verbo liberista: ce la devi fare da solo, con le tue capacità e i tuoi meriti, e se non ce la fai, come i più non ce la fanno, devi rivendicare da solo, devi protestare da solo, da solo esprimere tutta la tua rabbia. L’uno vale uno grillino dice la stessa cosa: stai solo, nel tuo web, fuori, contro tutti. Occorre smascherare questo inganno. Come? Riprendendosi l’iniziativa, organizzando una grande campagna di ri-orientamento politico.
La riforma più necessaria e più urgente, che non vedo però all’ordine del giorno, è la riforma dei soggetti collettivi, di lotta e di consenso, di rappresentazione e di azione, sindacati e partiti, con intorno nuove forme solidaristiche di movimento e di cooperazione, di mutuo soccorso sociale e di pratiche politiche di base. La rilegittimazione della politica passa attraverso la restaurazione di un rapporto di fiducia tra il basso e l’alto, tra popolo ed élite. Un’impresa ardua allo stato delle cose, ma l’unica forse in grado di riaprire un processo rigenerativo, direi redentivo, dello spirito pubblico ora in agonia.

PERCHÉ ABBIA SUCCESSO non c’è che riposizionare le due gambe, del conflitto e della mediazione. È un’operazione che non può che partire dall’alto. La mia idea è che il basso del sociale e del politico, cioè i lavoratori e i cittadini, devono essere il punto di riferimento, non possono essere il punto dell’iniziativa. L’antipolitica non si combatte con la democrazia immediata, perché oggi la democrazia immediata è diventata un’espressione dell’antipolitica. L’antipolitica si batte rifondando, in istituti nuovi, la democrazia organizzata. E se per le istituzioni sono necessarie le riforme, è una rivoluzione quella necessaria per i soggetti sociali e politici. Ma senza un rivolgimento nella cultura politica dell’attuale sinistra, tutta intera, nulla avverrà. (…)

È VENUTO IL MOMENTO di rimettere finalmente in discussione il pur difficile rapporto tra interesse di parte e interesse generale. Gramsci pronunciava la bellissima preveggente frase: «Voi porterete il paese alla rovina e allora toccherà a noi comunisti di salvare il nostro paese». Ma la pronunciava davanti al Tribunale speciale del fascismo. Non la si può ripetere con un tweet davanti al ridicolo contratto di governo 5Stelle-Lega. Ai milioni di persone sofferenti, disagiate, abbandonate e giustamente arrabbiate che hanno voltato le spalle alla sinistra, non puoi andare a ripetere, come ho sentito ripetere, la massima aurea: prima il paese poi il partito. Quelle persone hanno bisogno, ripeto, hanno bisogno, di un partito che si faccia carico di quella loro quotidiana condizione, per cambiarla dalle fondamenta e lo chiedono muti e soli, disperati e incattiviti. (…)
La mentalità culturale democratico-progressista non ha più capito il popolo. E il ceto politico imbevuto di quella cultura non è più venuto da lì e non è più andato lì. Perché quella cultura non è di popolo, è di élite. E le due sinistre, quella cosiddetta moderata e quella cosiddetta radicale, che si differenziano magari sul terreno sociale o sul terreno istituzionale come è violentemente e inutilmente accaduto di recente, sono invece accomunate dalla stessa cultura che poi è appunto una stessa mentalità. E questo è il motivo per cui la politica e l’organizzazione della sinistra-sinistra non riescono a recuperare il consenso che perdono le politiche di centro-sinistra. Né l’una né l’altra vengono riconosciute come partiti di popolo. A ogni elezione, di qualunque tipo esse siano, le due posizioni vanno puntualmente incontro allo stesso destino. Ormai da anni. Ogni volta si registra, si costata, si ripete che il centro città vota a sinistra, le periferie votano a destra. E se ne parla, sì, ma quasi fosse un problema come un altro. E invece è il problema dei problemi.

È IL PUNTO DI CATASTROFE di un intero agire politico. Se è così, e ormai normalmente è così, non si è sbagliato qualcosa, si è sbagliato quasi tutto. Non voglio metterla sul sentimentale: tutto il discorso fatto fin qui non va certo in questa direzione. Ma devo confessare un disagio che sa di quella cosa complicata che è la propria esistenza nel mondo, in questo tipo di mondo. Non mi va di trovarmi dalla stessa parte dei benestanti, mentre i nullatenenti stanno dall’altra parte. Non me la sento di stare con quelli che alle nove di sera entrano all’Auditorium contro quelli che alle sei di mattina escono di casa. È esattamente questo che, per riprendere un’espressione a me molto cara, «non si può accettare», non oltre, non più a lungo di così.