Tanti furono gli italiani e le italiane che nei sette anni che vanno dal 1938 al 1945 furono usati, in modi anche radicalmente diversi, come manodopera pressoché in tutte le branche produttive tedesche.

A loro sono dedicati la mostra online http://tantebracciaperilreich.eu/ e due portali biografici: il LaCi https://www.lavorareperilreich.it/ sui lavoratori civili/coatti e il LeBi: https://www.lessicobiograficoimi.it/index.php/ sugli internati militari italiani (Imi). Se un milione e duecentomila è il totale, pari a quasi il tre per cento della popolazione nella penisola (al censimento del 1936, il numero dei residenti era di poco superiore ai 42 milioni), ben differenti tra loro sono i gruppi in cui quella cifra deve essere scomposta.

TRA IL 1938 E IL ’43, cinquecentomila italiani e italiane andarono a lavorare in Germania per effetto delle periodiche intese economiche bilaterali tra Roma e Berlino, intese che regolavano anche l’«emigrazione organizzata» oltre Brennero. Fra loro braccianti (molte le donne), edili, minatori, operai industriali, ma anche camerieri, impiegati, addetti al commercio. Parificati ai lavoratori tedeschi e utilizzati, in quanto provenienti dal partner dell’Asse, pure nelle industrie strategiche, gli italiani potevano mandare denaro alle famiglie; nonostante ciò non mancarono conflitti, scioperi compresi.

GRAZIE ALLA PARTICOLARE gestione delle relazioni economiche tra Roma e Berlino, inoltre, fu di fatto l’Italia a dover anticipare alle famiglie dei lavoratori in Germania le rimesse periodiche dei loro congiunti; un meccanismo che gravava sul bilancio italiano e inoltre importava inflazione a Sud del Brennero, cosa che alla fine del 1942 indusse il governo italiano a chiedere il rimpatrio dei propri connazionali. La crisi dell’estate 1943 bloccò tuttavia i ritorni. All’8 settembre circa centomila lavoratori restarono bloccati oltre confine, trasformati di fatto in lavoratori coatti.

Sarebbero di lì a poco stati raggiunti dai seicentocinquantamila internati militari italiani (Imi), caduti prigionieri della Wehrmacht nei convulsi giorni successivi all’armistizio; gran parte degli Imi (sottufficiali e truppa) furono immediatamente avviati al lavoro coatto. Con gli ufficiali si usò una mano inizialmente più leggera, ma col passare del tempo si intensificarono le pressioni perché anche loro accettassero di lavorare finché – tra l’agosto e il settembre 1944 – pressoché tutti gli Imi furono trasformati d’imperio in lavoratori civili, cioè coatti.

NEL FRATTEMPO, si intensificava nell’Italia occupata e retta dal fascismo repubblicano di Salò lo sforzo per recuperare altra manodopera; esauritesi progressivamente le riserve di braccia da prelevare nell’Europa orientale e in Francia, dato l’andamento della guerra, l’Italia rimaneva quasi l’unico territorio in cui la fame di manodopera dell’economia di guerra tedesca poteva cercare di saziarsi. Altri centomila italiani, uomini e donne, vennero così coinvolti, con i mezzi più disparati: dalle proposte di arruolamento «volontario» condite da promesse allettanti all’invio con la forza di persone rastrellate durante operazioni antipartigiane o vittime di razzie nelle fabbriche, nelle strade, nei cinema o nei caffè.

L’IMPIEGO come manodopera forzata nell’economia di guerra fu anche la sorte, ancorché in condizioni assai peggiori di quelle dei gruppi prima citati, dei circa ventiquattromila deportati politici nei Konzentrationslager (Kl) quali Dachau, Mauthausen, Flossenbürg, Ravensbrück, e così anche di quegli ebrei che, deportati ad Auschwitz Birkenau, non venissero uccisi immediatamente dopo l’arrivo nel campo slesiano ma impiegati come lavoratori schiavi.

Dalla primavera 1942, infatti, con il prolungarsi della guerra e l’imprevista tenuta dell’Urss, la rete dei Kl era stata finalizzata alla produzione bellica e la gestione della manodopera, sia tedesca, sia arruolata nei paesi alleati, sia prelevata nei territori occupati dalla Wehrmacht era stata centralizzata.
Tante storie, tutte tra loro diverse, ma comunque degne e di essere ricostruite una per una, e di essere raccontate in un quadro unitario.

Dietro alla mostra e ai portali biografici, il lavoro di un consistente gruppo di ricerca, l’impegno dell’Associazione nazionale reduci dalla prigionia (Anrp) in cui si fondono la necessità del ricordo e la volontà di farne storia, e il sostegno finanziario del Fondo italotedesco per il futuro.