Ancora più della ferita profonda alle regole democratiche di un Parlamento che cambia la Costituzione, quello che colpisce nel giorno più lungo del Senato è la sensazione complessiva di follia e sbandamento. Nessuno sa come andrà a finire. La conferenza dei capigruppo, con il parere contrario di tutte le opposizioni, inclusa quella «finta»di Fi, ha deciso di far scattare la tagliola, o quanto di più simile alla tagliola i regolamenti di palazzo Madama consentano.

Tempi contingentati, 135 ore complessive per incamerare la riforma costituzionale e quattro decreti in scadenza: Ilva, carceri, cultura e pubblica amministrazione. Robetta. Alla riforma propriamente detta vengono concesse 80 ore per le votazioni e 20 per il dibattito. Voto finale l’8 agosto. Per modo di dire: la formula esatta adottata dal presidente Grassi recita infatti “previsione di voto”. Che sia possibile farcela davvero per quella fatidica data (scelta, pare, da Giorgio Napolitano in persona) non lo crede nessuno. Troppi i marchingegni possibili, gli spacchettamenti, le dichiarazioni di voto e di voto in dissenso, le verifiche del numero legale. E cosa sucederà il 9 agosto vallo a sapere. Se l’approdo sarà vicinissimo si proseguirà per qualche giorno. In caso contrario non è esclusa la permanenza forzata dei senatori nella capitale in agosto, proposta dalla ministra Boschi ieri, oppure, ma è proprio quello che il governo intende evitare a ogni costo, il rinvio a settembre.
Nessuno capisce perché il governo abbia deciso un muro contro muro così assurdo, che mette a rischio gli stessi decreti in scadenza, trasforma l’aula in un campo di battaglia e fa della riforma solo un prova di forza del presidente del consiglio, nella quale i contenuti non c’azzeccano né poco né punto. Più bullo di periferia, che statista.

Alla conferenza dei capigruppo convocata ieri mattina su istanza del Pd per dar concreto seguito alle parole di Napolitano, che martedì sera aveva invocato apertamente la tagliola, i gruppi di opposizione si erano presentati in posizione tutt’altro che preconcetta. «Di fronte a un’apertura poltiica sui punti qualificanti, come l’elettività dei senatori o i referendum, si sarebbe potuto discutere. Senza quell’apertura, il ritiro degli emendamenti era del tutto impossibile», dichiara Loredana De Petris, capoguppo di Sel.

La strategia del governo e della sua maggioranza è opposta. Avanti senza concedere nulla. La stessa decisione di chiedere subito la tagliola, senza neppure aspettare l’inizio della settimana prossima si deve proprio all’intenzione di evitare il primo possibile voto segreto che sarebbe probabilmente scattato proprio ieri mattina.

Non a caso, dalla ministra Boschi non arriva nemmeno uno spiraglietto di possibilismo, su niente, neppure su quegli argomenti, come il tetto per i referendum o il capitolo (oltretutto rimasto ufficialmente in sospeso) dell’immunità, sui quali trattare sarebbe stato per il governo del tutto indolore. La Boschi oppone un rifiuto secco su tutta la linea: «O ritirate tutti gli emendamenti tranne una quarantina o si va avanti con il contingentamento. La riforma deve passare entro agosto». Renzi si era già espresso in anticipo: «Non mollo».

Il presidente del Senato chiede al governo di chiarire almeno se sui decreti in scadenza metterà la fiducia: «Come si fa, altrimenti, ad armonizzare i tempi senza sapere di quali tempi si stia parlando?». E’ una domanda retorica, dal momento che senza la fiducia i decreti decadrebbero inevitabilmente tutti, ma una risposta esplicita è ugualmente necessaria. La ministra rifiuta di esprimersi: «Se mettiamo o no la fiducia ancora non lo so».

Dopo ore di discussione del tutto inutile, nella quale ogni argomento sbatte contro la fortezza blindata della coppia Renzi-Boschi, i capigruppo d’opposizione chiedono una pausa per consultare tutti i loro senatori, con l’intesa di non fare cenno alla tagliola chiesta da governo e maggioranza, per non portare alle stelle la tensione. Tutti concordano, Grasso per primo. I rappresentanti di Sel, M5S e Lega escono in effetti senza dire una parola. Quelli di maggioranza, il Pd Zanda e per l’Ncd Sacconi, invece si rivolgono alla foresta di telecamere e non la mandano a dire: «Abbiamo chiesto il ricorso all’art. 55 del Regolamento. Arrivare a settembre vorrebbe dire affossare la riforma». Per non esasperare i toni.

I senatori contrari alla riforma si riuniscono tutti insieme: Sel, M5S, Lega, ma anche i dissidenti del Pd, che delegano poi Casson come portavoce, e Augusto Minzolini, con delega esplcita degli azzurri anti-riforma. E’ un’assemblea dall’esito scontato in partenza Di fronte alla rigidità estrema del governo ritirare gli emendamenti è fuori disucssione. Infatti non lo propone nessuno. Altrettanto prevedibile la ripresa della conferenza dei capigruppo. Lo scontro frontale è inevitabile.

Infatti esplode subito, in aula, quando Grasso annuncia la «tagliola», ma peggiorerà nei giorni a venire. La De Petris chiede la parola e urlando accusa il governo di avere un solo obiettivo: eliminare gli spazi di partecipazione degli elettori e fare propaganda a man bassa, anche per stornare l’attenzione dai fallimenti in politica economica e dalle loro conseguenze che si vedranno in autunno. Ad applaudire, alla fine, c’è mezza aula. I capigruppo Centinaio, Lega, e Petrocelli, ribadiscono il medesimo concetto, e poi una fila di senatori, uno dopo l’altro. Critico anche Romani, Fi, e il co-relatore Calderoli profetizza «la caduta nella fossa per tutti» senza un ritorno alla ragione. Ma Renzi non alcuna intenzione di frenare. Deve vincere. Deve farsi propaganda. Del resto «se ne frega». Non è il primo nella storia italiana.