Il cambiamento climatico è prodotto dai Paesi del nord del mondo, ma gli effetti si «vedono» nei Paesi del sud.
È il caso del Kenya dove la mancanza di acqua sta mettendo a rischio la vita di 3,4 milioni di persone. In sei contee (Isiolo, Kajiado, Fiume Tana, Garissa, Kilifi, Wajir) la siccità è definita allarmante e con una tendenza al peggioramento. La novità è che sono entrate in situazioni di sofferenza anche aree a cui nessuno aveva mai vissuto il problema dell’acqua (shida ya maji). A Murang’a, ad esempio, in teoria è la principale fonte d’acqua per Nairobi, ma nelle ultime settimane i suoi rubinetti sono vuoti a causa dell’esaurimento dei fiumi.

Problemi di approvvigionamento anche a Nairobi, Nakuru, Kakamega, Mombasa, Kericho, Migori, Bungoma ed Eldoret. I fiumi del Kenya si stanno prosciugando rapidamente: dal grande fiume Tana e Ewaso Nyiro – la principale fonte d’acqua per l’arido nord – ai fiumi che scorrono dalle pendici del monte Elgon e di Chereng’any, la situazione è la stessa. Le cause sono diverse e si intrecciano, ma in particolare la crisi è dovuta alle poche piogge «scarsamente distribuite nello spazio e nel tempo con precipitazioni al di sotto della media e di conseguenza anche quando l’acqua è arrivata non è stata sufficiente per sostenere le famiglie nei mesi caldi e secchi. Gli effetti si vedono nei raccolti (scarsi), nell’allevamento e di conseguenza sulle persone (nelle contee di Isiolo, Mandera, Marsabit, Kajiado e Samburu c’è un elevato livello di malnutrizione). Come afferma Henry Wandera, docente di economia all’università di Nairobi: «Non possiamo distruggere foreste e aspettarci che piova».

Nel mirino la deforestazione della parte centrale del Kenya e in particolare la foresta di Mau dove c’è stata negli anni una crescente pressione migratoria che ha ridotto la superficie forestale per lasciare spazio ai nuovi insediamenti, in più l’aridità delle contee più a nord ha spinto negli anni molti pastori a muoversi lungo le zone umide della foresta distruggendole. Infatti l’ecosistema delle paludi è delicato, come spiega Sammy Kamati di Kenya Forest Service, «quando distruggi la vegetazione che le ricopre, la zona umida viene esposta al calore e di conseguenza l’acqua si asciuga». Poi c’è il taglio della legna e la trasformazione in carbone: «Ogni giorno carovane di asini escono dalla foresta portando ciascuno due sacchi di carbone» (si stima che tra il 1990 e il 2001 siano stati distrutti 107.000 ettari della foresta di Mau e dal 2001 oggi spariscono ogni anno 50.000 ettari di foresta). Questo accade perché c’è un sistema di corruzione che coinvolge geometri, ufficiali forestali e ufficiali di contea.

Il tema è anche politico perché negli anni sono stati «invitati» appartenenti di gruppi etnici non tradizionalmente residenti nell’area a spostarsi nella zona, hanno ricevuto persino titoli di proprietà e ci sono state manovre politiche per avere maggioranze o percentuali di voto (poiché le leggi negli anni hanno insistito sul fatto che i candidati dovessero essere rappresentativi del Paese e se in una zona non c’è nessuno dei tuoi sostenitori basta fargli avere la terra così arriveranno anche i voti). Da nord la gente si muove perché il lago Turkana si sta sempre più restringendo a causa delle dighe, in particolare Gibe III, che l’Etiopia ha installato sul fiume Omo grazie alle imprese italiane sostenute dal nostro governo: la siccità del Kenya ha tante maschere, ma anche il nostro volto (italiano).