Ciascuno ha la sua città e la sua gente. Quella di Gianfranco Jannuzzo è la gente di Agrigento, di Girgenti, è la gente mia, la gente nostra, quella della nostra infanzia e quella di oggi. Gente mia, questo è il titolo che Gianfranco Jannuzzo ha dato al suo bel libro di fotografie, curato da Angelo Pitrone, che ne ha scritto la prefazione, pubblicato da Medinova, pp. 198, euro 28), casa editrice indipendente di Favara, il cui editore è uno straordinario e coraggioso medico, Antonio Liotta.

CHE RAPPORTO abbiamo con la gente nostra, noi che stiamo altrove e non riusciamo a risolvere il nostro rapporto con la nostra città natale? Globalizzazione, cosmopolitismo, velocità di spostamento nei quattro angoli del pianeta non hanno cancellato e non possono cancellare le origini. La memoria ci afferra e diventa nostalgia. Come salvarsi da quel dolce struggimento che è la nostalgia così somigliante alle sirene che ti incantano e però alla fine ti prendono e tu scopri che il loro meraviglioso canto è una terribile trappola. Vi sono tre modi. Uno è quello che applicarono gli uomini di Ulisse tappandosi le orecchie, un altro è ciò che fece proprio Ulisse, il quale, come tutti sanno, si fece legare all’albero maestro della nave ma volle ascoltare, il terzo è la trasformazione della nostalgia in malinconia. Quest’ultima è il senso del limite, la lucida consapevolezza che le cose accadute non si possono cambiare, la contemplazione di ciò su cui non si può più agire.

SE C’È UNA COSA che traspare dalle foto di Gianfranco Jannuzzo è la malinconia. Si tratta di una malinconia che affiora lievemente dietro il dilagare dell’amore e dell’affetto che egli nutre per questa città. Non so se è quella nascosta dalla dolce esuberanza del suo essere attore oppure quella che è intrinseca alle foto in bianco e nero. Sì, perché le foto in bianco e nero sono intrinsecamente malinconiche. Scavano di più nei volti, giocano tra le ombre, offrono a chi le guarda il senso di ciò che è stato e che non tornerà mai più, eppure sono presenza, presenza dell’assenza, espressione della mancanza, passato che si mostra, un non ritorno che ritorna, malinconia. Nelle foto di Gianfranco Jannuzzo i volti e i corpi stanno tra mura, pietre, finestre, porte, scale. Curioso, Jannuzzo punta ai volti, ma in realtà essi non si stagliano fuori dal contesto in cui si trovano, bensì stanno sullo stesso piano delle finestre chiuse o semichiuse, dei cartoni rotti, delle strade malcurate, di un mondo che negli sguardi, specie in quelli dei bambini, riconosco come mio. Vi vedo povertà, ma dignità. Povertà non miseria. Quest’ultima di solito è intrecciata con la ricchezza e ha a che fare con l’etica. La spazzatura che oggi si scorge nelle piazzole di sosta delle superstrade o nei cassonetti mai svuotati e traboccanti di sacchetti, sono miseria, non povertà. La distinzione morale tra povertà e miseria è abissale.

IN UNA FOTO scattata dall’Addolorata, una chiesa importante di Agrigento, si vede via Garibaldi, con il campanile di S. Francesco di Paola, attraverso il vetro di una finestra. Senza le auto poteva essere stata scattata, a dir poco, negli anni ’50, ma vi sono le macchine i cui modelli tradiscono il Terzo Millennio. Ecco una giustapposizione fra due epoche che convivono l’una accanto all’altra. Le auto sembrano quasi estrinseche al contesto e invece, come tutti i popoli che hanno invaso e colonizzato la Sicilia, sono le dominatrici di un mondo che decade. Vi sono alcune foto di bambini dell’epoca che giocano in mezzo ai vicoli tra le salite e le scalinate in un mondo dove tutto si intrecciava con tutto.
Nelle strade e davanti alle porte vecchi, donne, ragazze, suore, pescivendoli, calzolai, venditori di noccioline e di cubaita. Il rapporto tra l’interno delle case e l’esterno delle strade, tra la vita dentro e la vita fuori era completamente diverso da oggi. Ma, come fa notate Angelo Pitrone nella prefazione, Gianfranco Jannuzzo non ha inteso fare un reportage etnologico, bensì qualcosa che somiglia al dramma espresso con il sorriso tra un atto d’amore che vuole fermare il tempo e il suo inevitabile inarrestarsi. Gente mia riguarda Agrigento, ma anche qualsiasi donna o uomo nel rapporto del suo passato che con le foto in bianco e nero si avvicina proprio mentre resta lontano. Presenza di un’assenza.