A Rovigo è in corso nelle sale del palazzo Roverella una mostra tematica che durerà fino al 22 giugno, intitolata L’ossessione nordica, nella quale viene presentata una fascinosa antologia di autori che non si incanalarono per le vie aperte dalla pittura impressionista, che non sentirono il richiamo dell’arte futurista, ma che vissero in una loro ricerca alquanto eterodossa, alcuni a forte influenza letteraria, altri presi dalla seduzione di charme e stile, altri, infine, nell’aere ambiguo del simbolismo (Wagner, Maeterlinck, Louys e la decadenza da Verlaine, Rimbaud e Mallarmé), di fronte all’irreducibilità della natura che fa sedere allo stesso tavolo da gioco elfi e furie.

È iniziata l’epoca della fine degli imperi e della centralità e là dove, in assenza dell’imitazione delle capitali del mondo, sembrava non esserci niente, al posto di quel nulla che sono le imitazioni comincia a fiorire qualcosa di inusitato, originale, insolito. È così in musica, coi Sibelius, gli Janacek, i Nielsen, i Kodaly e anche gli Ives; è così nell’arte figurativa, che qui mostra uno spicchio dell’emancipazione di parte della periferia d’Europa dal primato che, a fine Ottocento, era sostanzialmente francese.

Ora, nel Vecchio continente, l’unico considerato ai fino culturali, non solo lo scandinavo Munch è figura che emerge dalla periferia, ma lo sono lo svizzero Böcklin, il tedesco Klinger e, più che ragionevolmente, il greco De Chirico: tutti artisti cui il Novecento attribuirà posizioni dominanti nell’evoluzione dell’arte del XX secolo.

Per quel che riguarda ciò che questa mostra isola, domina il fascino dell’inverno, per cui i sentimenti si dispongono più che altro sul versante della melanconia.

Fosse tutta così, la mostra sarebbe un triste cimitero di luoghi comuni alla Edgar Wind (di cui in questa mostra non c’è traccia) o alla Fernand Khnopff. Comunque al carattere letterario di questa cultura bastano quei maestri tecnicamente bravi quanto tardo pompier nell’immaginario che rispondono ai nomi di Luigi Bonazza, Adolfo de Carolis, Ettore Tito, Glauco Cambon e Gaetano Cresseri e qualcun altro. La mostra potrà anche fornire un appoggio ai loro mercati, ma serba qualcosa di migliore.

C’è il selvaggio von Stuck, il proto-surrealista De Chirico; non c’è l’isola dei morti di Böcklin, ma alcune sue filiazioni, firmate da Diefenbach e da Teodoro Wolf Ferrari, figlio del pittore tedesco August Wolf, e fratello del musicista Ermanno (I quattro rusteghi da Goldoni, Il segreto di Susanna); ci sono dei primitivismi studiati che giocano, coscienti di farlo o no, col Le sacre di Stravinskij, come Centauri e naiadi di Max Klinger; c’è uno struggente Casorati, Le due bambine, del 1912. Mentre Mario de Maria sembra guardare alla morte e ai dannati col filtro del Dante di Doré, Carl Larsson, uno svedese del secondo Ottocento, appare quale un Norman Rockwell senza notizie, senza un giornale. Ha naturaliter lo stile dell’illustratore: i suoi lavori sono pieni di vita grazie al colore e al nitore di quel che mostrano. Fece degli acquarelli di un’abitazione ideale e pubblicò un libro illustrato, La casa del sole, che gli diedero grande notorietà locale. La sua casa, tramite la diffusione di riproduzioni a stampa dei suoi disegni, divenne un modello. È ancor oggi visitabile, e visitata, a Sundborn.

Senza tema di understatement, la mostra offre alcuni multipli di Klinger, di Munch e di Alberto Martini che, partito da ispirazioni letterarie, si trasformò lentamente in un surrealista molto studiato, di modesta efficacia.