Una questione di sguardi, invenzioni, stile, universi fantastici che inarrestabili continuano a avvicendarsi tra le sue generazioni: Manoel De Oliveira, Paulo Rocha, Pedro Costa, Teresa Villaverde, Miguel Gomes, Joao Pedro Rodrigues per citare soltanto alcuni dei nomi. Ma non è l’unica ragione, pure se è moltissimo, che dà al cinema portoghese una forza d’attrazione tale da riuscire a mobilitare intorno alla sua protesta una comunità cinematografica internazionale – tra le firme nella lettera mandata al governo contro la proposta della nuova legge ci sono Kaurismaki, Céline Sciamma, Lav Diaz, Weerasethakul, Bonello, Maren Ade, Carax, Guadagnino.

 
Cosa è allora che rende la sua esperienza così preziosa (pensiamo alle discussioni sulla legge cinema in Italia che certo non hanno avuto lo stesso respiro ma forse nemmeno la spinta di aprirsi all’esterno)? Eppure parliamo di produzioni a budget indipendenti, di autori che sfuggono ai codici e alle regolamentazioni, e non solo i «grandi maestri», a cominciare appunto da De Oliveira, ma anche esordi che hanno sempre un lato eccentrico, che attuano una rimodulazione nelle abitudini della visione.
Prendiamo un cineasta co

 

 

me Miguel Gomes, peraltro tra i principali protagonisti di questa resistenza alla politica governativa lusitana. Poche volte accade che un film, come è stato col suo Le mille e una notte, scompigli l’immaginario con la portata di un evento quasi leggendario. È un film magnifico, non si discute, per la ricchezza irriverente e visionaria nella regia, nella narrazione e soprattutto per la capacità di trasformare il presente in gesto di cinema. Si parla della crisi economica del Portogallo, di un regista (lo stesso Gomes) che fugge dal set, della troika e dei suoi ricatti, ma quello che è il racconto del contemporaneo si trasforma in un universo immaginifico che mai si adagia nella semplice certezza dell’attualità. Anzi, al contrario, la trasforma in un elemento fantastico rifondando l’idea di cinema politico che sia al presente o nella Storia.

 

 

Che è l’altro grande riferimento, i filmmaker portoghesi (l’Italia avrebbe tutto da imparare viste le rimozioni radicali messe in atto sull’argomento), come pochi in Europa hanno saputo confrontarsi col passato colonialista, forse perché da lì è scaturita la rivoluzione con la fine della dittatura. Però anche in questo caso all’esigenza di costruire una narrazione si unisce la ricerca di un dispositivo dell’ immaginario. Pensiamo ai protagonisti dei film di Pedro Costa, Vanda o il Ventura di Juventude em marcha – quasi un’ossessione quella del regista ritornare negli anni tra i capoverdiani alla ricerca del frammento mancante nell’immagine della rivoluzione. O, proprio quest’anno, al bel lavoro (visto alla Berlinale) di una giovane artista e cineasta, Filipa Cesar,Spell Reel, in cui l’archivio della guerra di liberazione nelle colonie viene mostrato con proiezione all’aperto tra i ragazzi della Guinea Bissau come spinta alla consapevolezza del proprio Paese.

 
È unico il cinema portoghese? Senz’altro nella molteplicità che lo caratterizza, e anche qui tra i pochi a avere conservato una certa spudoratezza, la libertà di un sguardo che non cerca il format, la ricetta che funziona – troppo spesso come accade da noi in modo programmatico – ma che rivendica invece, nei suoi esempi riusciti una natura libera.
È questo che va difeso, sostenuto, soprattutto oggi.