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La storia è quasi una corsa, una discesa seguita da un virata. Il dolore e la derisione che aderiscono l’uno all’altro in un reciproco scambio di ruoli, la scoperta di una realtà tanto dimenticata da risultare inedita e spesso scioccante. Corre Antonella Cilento con La Madonna dei mandarini (NN editore, pp. 140, euro 13), un breve e denso romanzo composto da tre rapidi movimenti con un epilogo secco finale. L’autrice ha la qualità rara di unire una scrittura fisica e aspra caratterizzata da parole che si fanno subito corpo, con un’allegria a tratti sconsiderata nella sua lucentezza: una solarità che genera movimento e presunzione di felicità, sentimento ben diverso e più ardito della sola speranza.

Il romanzo ambientato a Napoli attraversa la vita convulsa e complicata di un’associazione per disabili in cui le piccinerie come i sogni si confondono quotidianamente. Storia quindi parallela di una città e di un modo necessario e obbligato di vivere in cui la comunità si fa stato parallelo, un sostitutivo artigianale e competente che sposta i confini dell’ovvio, però spesso con imprevedibili conseguenze.

La violenza non è meno teatrale della comicità, il palco si sposta in continuazione e chiunque è chiamato in scena senza alcun ordine di continuità. Antonella Cilento tiene la barra di una lingua a tratti frenetica, ma mai compulsiva, anzi trattiene e rilascia con cauta precisione il divenire degli eventi spostando di volta in volta l’obiettivo attraverso una sorta di lungo piano sequenza linguistico.

I protagonisti in rissa non si accavallano, ma si definiscono e si raccolgono lentamente calamitando gli eventi in funzione del proprio ruolo. La Madonna dei mandarini segue di pochi mesi Bestiario napoletano (Laterza), un saggio dentro al quale Antonella Cilento elencava l’umanità scenica napoletana. Con La Madonna dei mandarini si avverte un passaggio ulteriore, ossia l’uso del luogo comune partenopeo ribaltato in forma romanzesca e capace di raccontare e generare così storie proprio perché convogliato nello stupore di una realtà imprevedibile

Il luogo comune torna a rappresentare senza parodiare, a raccontare la profondità troppo spesso occultata dalla presenza apparentemente trasparente della tipicità. La leggerezza contraddistingue una storia non priva di amarezze e di cruda violenza divenendone la chiave di lettura di una realtà che diviene protagonista assoluta. Messi in scacco da una povertà di fatto come dagli stessi futili desideri, i protagonisti cercano una salvezza possibile attraverso un’ingenua vanità spesso però schiacciata dall’offesa più facile e per certi versi atroce, quella data alla bellezza.

Tutto questo non va a indicare una Napoli alla deriva attraverso una denuncia più o meno ovvia, ma evidenzia l’ostinazione di una città e di un popolo che, fattosi corpo unico, resiste anche con le proprie divertite superficialità ponendosi come solo ostacolo alla profondità della caduta, perché nella leggerezza tutto accade.