«C’è qualcosa che mi colpisce sempre in un… se lei me lo permette, un vecchio regista come lei», afferma con punta di imbarazzo un giovane uomo occhialuto. «Come?» risponde l’altro. «Un vecchio regista», ripete il primo. Ma è prontamente interrotto dal secondo, che lo incalza: «un dinosauro! Un dinosauro!» Non per nulla porta un monocolo. E il primo, forse per addolcire la dose: «ciò che mi colpisce è la sua estrema giovinezza». I due sono Jean-Luc Godard e Fritz Lang, filmati nel 1967 da André S. Labarthe, in un film realizzato per la serie «Cinéastes de notre temps», creata dallo stesso Labarthe e da Janine Bazin: Le dinosaur et le bébé, appunto.

Ho pensato a questo documento, dopo aver appreso della morte di Jacques Rivette, che – nello stesso anno – per la stessa serie, aveva realizzato un film in tre parti dedicato a Jean Renoir, Jean Renoir, le patron: un altro dinosauro. Ed è stato un attimo rendersi conto che oggi sono loro, Jean-Luc Godard e Jacques Rivette, i due «dinosauri». Di tempo ne è passato, evidentemente. Tanto che è l’intera «macchina cinema» ad essere cambiata, rispetto a quelle conversazioni, così come la cultura che gli gravitava intorno: la nouvelle vague, il grimaldello dell’autore, l’idea di un cinema «moderno».

Se parlo di «macchina cinema» è per avvalorare un’ipotesi cara a Hollis Frampton, il quale in un testo profetico intitolato «Per una metastoria del film: note e ipotesi a partire da un luogo comune», indicava, già nel 1971, come il cinema fosse l’ultima macchina dell’Età delle Macchine. «L’ultima arte che raggiungerà la mente attraverso i sensi. Di solito si fa coincidere la fine dell’Età delle Macchine con l’avvento del video. È difficile stabilire il momento esatto: personalmente preferisco identificarlo col radar, che sostituì̀ l’aereo di ricognizione meccanico con un’immobile e anonima scatola nera, e fu inventato più o meno negli stessi anni in cui Maya Deren girava Meshes of the Afternoon e Willard Maas Geography of the Body. L’idea che ci sia stato un istante esatto in cui il vento è̀ cambiato e il cinema è divenuto obsolescente, e quindi una forma d’arte, è una finzione suggestiva che pone un compito specifico al metastorico del cinema».

Il regista è un artista? È qualcuno che lavora duro, ricorda Fritz Lang, incalzato da Godard. Fare film? «Sempre meglio che lavorare», ricordano oggi i tre trentenni di The Pills. Sono passati neppure sessant’anni. Sembrano mille. Eppure, sì, chi fa film è qualcuno che lavora. Come l’orologiaio di Storia di Marie e Julien, realizzato da Jacques Rivette nel 2003.

E quel vecchio orologio di una vecchia parrocchia è l’esempio più pertinente per rendere l’idea di questo mix di obsolescenza e insostituibilità che è il cinema. L’orologio che Julien tenta di aggiustare è antichissimo, e perde colpi. Così come sembra perdere colpi la trama del film. Anche i personaggi si muovono mal assortiti, mal sincronizzati. L’arte di Rivette è sempre stata quella di ordire film simili a complotti, tessere storie straordinarie, mai lineari, ricche di misteri, mappe e paranoie che si dipanano nel tempo, e migrano da film a film. Storie di fantasmi.

Sarà dunque necessario che quel vecchio residuato fatto di bielle e eccentrici, composto di parti meccaniche, venga aggiustato, perché la storia ritrovi alla fine un senso, un suo respiro e la stanza al piano superiore venga infine arredata, e si metta a fluttuare nel tempo, schiudendo una zona temporale piuttosto grigia: un’interzona (dove siamo? ho sempre pensato che si finisca nella stanza in cui si era suicidata nel 1943 Jacqueline Gibson, la protagonista di The Seventh Victim, un film di Mark Robson).

Quel corpo meccanico andava rettificato. I suoi meccanismi non sono così diversi da quelli di una vecchia macchina da presa, o di un proiettore; funzionano in maniera simile, tanto che quell’orologio ne è il loro cuore rivelatore. In fondo, una macchina – scriveva Hollis Frampton era: «una cosa fatta di ‘parti’ distinguibili, organizzate per replicare qualche funzione del corpo umano. Infatti si diceva che le macchine «funzionavano». Un esperto non ci metteva molto a capire come ’funzionava’ una macchina, gli bastava ispezionare la forma delle sue ’parti’.

Era possibile verificare intuitivamente quali principi fisici permettevano il ’funzionamento’ delle macchine».
Ma che fare oggi, in un’epoca di DCP e macchine digitali? Dove mettere le mani? Dove sono le «parti»? E qual è il loro rapporto col corpo umano? Discorsi da dinosauri. Salutiamo dunque Jacques Rivette. È un’epoca del cinema che se va? È probabile. Eppure, tra cent’anni, quei vecchi proiettori forse funzioneranno ancora, come l’orologio di quel film. Nulla è perduto.