Alcuni, pochi fatti, sono esposti sulla scena del gran teatro cinese; ed entrano in collisione con molto di quanto correntemente si dice e scrive della Cina sui mass media: che il sistema socialista, dispotico, economicamente inefficiente e mascherato da propaganda menzognera, aveva condotto il paese sull’orlo del collasso: e che, fortunatamente, all’oscurantismo della presidenza di Mao era succeduto Deng Xiaoping, politico illuminato, che con prudente gradualità indirizzava il paese al superamento dell’infelice esperienza socialista e al reingresso nel mondo civile.

A capo della corrente «riformatrice», un po’ alla volta neutralizzava i «conservatori» legati al vecchio dogmatismo socialista maoista (anche quando si trattava di noti avversari di Mao, come l’economista Chen Yun e di molti altri).

Verso il «libero» mercato
Naturalmente avviarsi al libero mercato capitalistico equivale ad accedere alla democrazia: la Cina dei «riformatori» era ancora un po’ indietro a causa delle resistenze dei «conservatori», ma il fiorire dell’economia, gli scambi con l’estero, il buon governo, la sostanziale soddisfazione del pubblico nelle diverse sfere (dai contadini arricchiti agli intellettuali liberati) promettevano al paese il superamento della povertà e l’evoluzione verso la democrazia.

In questa Cina «fiorente e soddisfatta» seppur povera, un movimento di studenti riesce in un momento a indurre a una lotta pacifica ma ad oltranza milioni di cittadini di ogni condizione che, compatti come un sol uomo protestano contro il governo e chiedono le dimissioni del premier. Si tratterà dell’ultimo «conservatore»? Ma i cittadini chiedono anche il pensionamento definitivo di Deng. con atteggiamento che non sembra di stima e simpatia.

E quest’ultimo si ostina caparbiamente nella repressione, minacciando di far sparare sul popolo, accusando i giovani (e il popolo) di essere «controrivoluzionari», promuove la legge marziale a rischio di destabilizzare l’intero paese. Che cosa teme? E che significa tutto questo?

Una mobilitazione come quella degli ultimi giorni a Pechino e nelle altre città sarebbe stata impossibile senza profondissimi motivi di scontento nell’intera popolazione. Il fatto è che la Cina non solo non è in una fiorente situazione economica, ma non è ben governata, e l’infelicità della gente è andata crescendo oltre il limite della sopportazione anche fra i molti che, stanchi dei lunghi periodi di lotta durante la presidenza di Mao, sarebbero abbastanza disposti ad adattarsi e subire, pur di essere lasciati al personale quieto vivere.

L’unità popolare è oggi contro qualcosa piuttosto che per qualcosa di ben definito: c’è un ostacolo, un peso intollerabile da cui liberarsi, non un progetto politico. Il movimento è come sempre strumentalizzato ai fini delle lotte intestine dei potenti per il potere, e più lo sarà in seguito; ma di per sé si pone come movimento di opinione. Le esplosioni di massa sono proprie di una struttura priva di canali istituzionali di sbocco per l’opinione pubblica; ma con una popolazione urbana, specie giovanile, cosciente e partecipe, a volte protagonista, della trasformazione epocale in corso nel paese da settanta anni.

Alla storia di questi settantanni, alle contraddizioni nella società, alla «lunga rivoluzione», ai mutamenti culturali occorre riferirsi per tentare di comprendere quello che è dato comprendere degli eventi di oggi, di quel che accade fra il popolo, evitando la politologia di professione. In ogni caso, occorre evitare gli schemi che suddividono la storia del paese in periodi chiusi dai limiti invalicabili, fossero pure quelli di «prima» e «dopo» la Liberazione (cioè fra Cina del Kuomintang e Cina socialista) – per non parlare di «prima» e «dopo» la rivoluzione culturale, o addirittura «prima» o «dopo» la sconfitta della «banda dei quattro».

I movimenti popolari che da settantanni si susseguono costituiscono una ricca esperienza trasmessa da una generazione all’altra. Tornano i contenuti della ribellione, arricchiti ogni volta dai successi passati e dalle stesse sconfitte, e se ne ripetono le forme: l’agitazione studentesca, che a partire dal 4 maggio 1919 funge da detonatore per l’esplosione della protesta di massa; la funzione degli operai, a sostegno e legittimazione; la capacità di organizzarsi e i modi di comunicare, dove l’autocontrollo, l’intelligenza politica e la ricchezza di fantasia della gente comune fanno scoprire allo stupito osservatore occidentale che la «sua» democrazia non è la sola esistente e possibile.

I nuovi mandarini
Nei movimenti pacifici o armati, a contenuto economico-sociale o patriottico, culturale o politico, si manifesta il protagonismo del popolo nella faticosa ricerca di una via d’uscita per il paese dallo sfacelo del vecchio ordine e dalla aggressione esterna che lo accompagna, dall’Occidente e dal Giappone. La penetrazione europea e americana è parte dell’aggressione, e, a un tempo, catalizzatore della distruzione del vecchio ordine. Lo sfacelo dell’economia fondata sulla rendita agraria non ha coinciso con l’avvio di uno sviluppo industriale accelerato, principalmente per insufficienza di capitali: dalla guerra dell’oppio agli anni 1910, l’ingente capitale accumulato è stato rubato alla Cina dai colonizzatori europei.

L’ipotesi di un sviluppo che riproduca quello del capitalismo inglese a due secoli, di distanza e nelle radicalmente mutate condizioni internazionali è fuori della realtà assai più di qualsiasi utopia socialista egualitaria. Pure, viene periodicamente riproposta, dopo ogni sconfitta o fallimento delle rivoluzioni nelle città (1927; 1977).

Sono propagandati i valori dell’arricchimento individuale e del consumo, creando aspettative che si è ben lontani dal poter soddisfare, per la grandissima maggioranza; e l’arricchimento e il successo dei pochi, nel contesto della generale povertà, si accompagnano alla corruzione. Già frustrata nelle speranze rivoluzionarie, la gente lo è nuovamente nelle promesse di promozione e di benessere individuale. Sì reinnesta il ciclo della rivolta. Contro gli stranieri, dei quali si invidiano il tenore di vita e i privilegi di libertà, e dai quali ci si ritrova sottomessi e sfruttali.

Contro il mandarinato al potere i funzionali della Repubblica popolare, i gaudi, figli della rivoluzione, a poco a poco sono diventati molto simili ai loro fratelli della nomenklatura staliniana. Per il popolo incolto, oggi, dire ganbu è quasi lo stesso che dire guan, il funzionario al tempo dell’impero. Per di più, dopo la svolta in direzione capitalistica i dirigenti e i ganbu di ogni livello intrecciano legami più o meno puliti col mondo imprenditoriale e finanziario: il popolo mono incolto li riconosce molto simili ai burocrati ed ai politici del Kuomintang degli anni ’30 e ’40. La costanza dei moduli, l’andamento ciclico delle rivolte, il ripetersi della repressione non vanno intesi come immobilità.

Nulla al mondo si è trasformato come la Cina di questi settantanni. La trasformazione fondamentale è dovuta alla rivoluzione dei contadini. Ma non ha avuto esito il tentativo di Mao di fondere contenuti marxisti e populisti, e di arrivare allo sviluppo economico e alla modernità per la via della rivoluzione contadina. Il corpo mandarinale si è riformato non solo a causa dell’influenza dell’Urss, col suo modello istituzionale e la sua diretta interferenza, ma anche per la mancata formulazione di una ipotesi di sviluppo efficace, in alternativa a quella borghese-operaia, con al contro le città.

Quando negli anni sessanta gli studenti insorsero contro la burocrazia chiedendo libertà e autogoverno, nell’appoggiarli Mao non trovò la sua base fra i contadini, ma fra gli operai dei grandi centri industriali, come Wuhan, Shenyang, Shanghai. Una base troppo limitata, nel grande mare di contadini che ancora oggi è la Cina. Ma c’era anche un limite invalicabile nel modo di pensare e nella condotta dello stesso Mao e dei giovani che lo riconoscevano proprio leader: per eredità del vecchio e del nuovo dispotismo parevano scontati l’intervento e la guida di una autorità dall’alto.

I giovani delle città lottavano per liberarsi dai vincoli del potere dispotico, ma dall’alto chiedevano una benedizione.

Mao Tzetung e gli studenti
Quando il leader carismatico non seppe impedire che l’esercito guidasse le milizie contadine a fare strage di giovani studenti e operai essi si sentirono traditi e fu la disperazione: la loro rivolta parve diventare solo l’occasione per uno dei tanti vuoti slogali. Era la fine della rivoluzione culturale e la premessa della vittoria dei mandarini.

I giovani delle città sono oggi più maturi dei loro padri a causa di quella delusione e di quella sconfitta. Hanno imparato che devono contare solo su se stessi. Senza l’eredità della Rivoluzione culturale – quello che essa fu all’inizio, movimento giovanile spontaneo contro la nomenklatura e per la libertà, sostenuto dal carisma di un grande leader – il movimento attuale non avrebbe potuto prodursi. Ma si attua oggi quello che il riferimento al leader carismatico rendeva allora impossibile! Gli esiti politici del movimento saranno solo qualche modesta concessione (ma, a quanto pare nemmeno quella) nell’ipotesi migliore. Nella peggiore la repressione, e potrebbe essere versato sangue di giovani. Ma il movimento conta per quello che esso è, non per quello che otterrà ora, e lascerà la sua traccia nella storia della Cina e nostra.

* Questo articolo, drammaticamente profetico, uscì il 3 giugno 1989, il giorno prima del massacro. La grande sinologa, morta nel 2011 ha collaborato con «il manifesto» dagli anni Settanta al 2009. Nel prossimo autunno la ManifestoLibri prepara l’edizione di tutti i suoi scritti usciti sul quotidiano «il manifesto» a cura di Tommaso Di Francesco e Simone Pieranni.