Saga di un popolo, epopea di una nazione, racconto corale che si dipana attraverso singole storie connesse da una stessa maledizione, Kintu (66thand2nd, pp. 464, euro 20, traduzione di Emilia Benghi) di Jennifer N. Makumbi traccia il percorso dell’Uganda in duecentocinquanta anni, segnandone l’evoluzione dalle origini precoloniali a nazione moderna e sorta di «Africanstein» creata in laboratorio dagli europei.

IN APERTURA, un giovane viene prelevato dalla sua casa tra le baracche e gli acquitrini di Kampala, capitale del paese, da pubblici funzionari che lo accusano ingiustamente di furto, e che dopo un interrogatorio sommario lo abbandonano al linciaggio della folla pur essendo innocente. Siamo nel 2004, il giovane si chiama Kamu Kintu, che in Uganda significa «cosa», ma è anche il primo uomo della mitologia Ganda. Per riportarci all’origine di questo tragico destino, l’autrice fa quindi un salto indietro di due secoli e mezzo e catapulta il lettore nel regno del Buganda, nel bel mezzo di una sanguinolenta crisi dinastica, nel lontano 1750. In quell’anno, il valoroso Ppookino Kintu Kidda, governatore della provincia di Buddu, che nel suo ruolo aveva sino ad allora servito fedelmente cinque re, intraprese un lungo e infido viaggio per rendere omaggio al nuovo sovrano, l’altezzoso usurpatore Kyabaggu. Nella traversata però, trovò accidentalmente la morte suo figlio, per sua stessa mano, e dalla tragedia scaturì un anatema che si ripercuoterà nei secoli sulla sua stirpe futura.

LA DESCRIZIONE di questo antefatto abbonda di dettagli sulla corte reale buganda del settecento e i suoi intrighi, oscillando abilmente tra immaginazione e ricerca storica. L’instabilità politica si riflette anche in quella familiare dello stesso governatore, sposato con due mogli gemelle – più numerose altre che verranno in seguito, disseminate in tutta la provincia -, afflitto da contese di successione e schiavo della missione procreativa, introducendo il tema della virilità nelle culture africane e del maschio sobbarcato di aspettative dalla società, considerato alla stregua di un «toro da monta gettato in una mandria di giovenche».
Da questo antefatto storico e mitico al tempo stesso, la narrazione si allarga a raggiera tra regioni e periodi storici diversi fino a raggiungere l’Uganda post-indipendenza (ottenuta nel 1962 dal Regno Unito), mescolando leggende orali e credenze magiche a mitologia e folklore, vivide scene di erotismo e violenza a storie e destini individuali.

DISSEMINATI NEL PAESE, i discendenti di Kintu lottano per liberarsi dal fardello di quella colpa originaria: l’inquieta Suubi, divorata da un’insaziabile fame e discriminata per la sua magrezza, il vedovo Isaac Newton, il predicatore Kanani, membro insieme alla moglie della setta anglicana dei Risvegliati, la donna-generale Kusi. Fato, predestinazione, trasgressione, sessismo, patriarcato, sessualità e malattia mentale le tematiche dominanti e ricorrenti in un’Uganda moderna ma vessata dalle ombre del colonialismo, dell’amministrazione britannica e dei missionari protestanti e cattolici, che hanno lasciato in eredità al paese una frammentazione religiosa, etnica e culturale.

ROMANZO D’ESORDIO vincitore di numerosi premi, Kintu è stato definito dalla critica l’equivalente ugandese del Crollo di Chinua Achebe, condividendone forse l’impegnativo obiettivo di «insegnare al suo popolo dove la pioggia ha iniziato a bagnarlo», per parafrasare l’indiscusso padre della letteratura africana di lingua inglese, punto di riferimento imprescindibile da oltre sessant’anni per le nascenti letterature nazionali postcoloniali in buona parte del continente.