Gli inservienti di palazzo Chigi avranno di certo trovato parecchia polvere. La sala Verde che riapre questa mattina  per l’atteso incontro governo sindacati e poi governo imprese è chiusa da quasi due anni. Esattamente dal 21 novembre 2012 quando Mario Monti fece sottoscrivere a Cisl, Uil, Confindustria, Reteimprese e Cooperative (guidate al tempo da Giuliano Poletti) l’accordo sulla produttività. Susanna Camusso e la Cgil non firmarono, ma l’accordo separato ebbe poca fortuna e rimase sostanzialmente lettera morta.

Enrico Letta nel suo breve governo non ebbe il tempo per apparecchiare la tavola e dunque le pulizie oggi saranno state alquanto complicate.

Dove siederanno Matteo Renzi e i leader sindacali e imprenditoriali si sono scritte pagine importanti della storia repubblicana. La mente va certamente all’accordo sul costo del lavoro del 1992 sottoscritto da Bruno Trentin che poi si dimise da segretario Cgil proprio a causa di quella firma. La sala Verde viene considerata infatti a ragione la sintesi plastica di quella concertazione – contestata da una parte del sindacato, basti pensare a Giorgio Cremaschi – che è stato il tratto principale del rapporto governo-parti sociali fino al secolo scorso.

Dopo l’interludio Berlusconi – che la concertazione la fece solo con Confindustria, Cisl e Uil – è stato Mario Monti a decidere di sotterrare quella pratica. La riforma del Lavoro Fornero fu sì discussa, ma i tempi stretti e serrati e specificando subito che «alla fine sarà il governo a decidere». Così fece, scontando la mancata firma della Cgil e poi il lodo Bersani sull’articolo 18: quello che ha portato alla formulazione che ora va stretta – perché poco favorevole alle imprese – a Matteo Renzi.

La battuta del premier di domenica – «sono invecchiato, ho riaperto perfino la sala Verde» – dà però l’idea di quanto la scelta di convocare i sindacati non sia sua ma figlia della mediazioni di Matteo Orfini che ha chiesto a Renzi di recuperare – per quanto possibile – i ponti con le parti sociali per poter votare e dare il via libera in Direzione Pd al Jobs act.
Ma le danze le comanderà il premier. E quindi se la sala sarà Verde, le tempistiche saranno lampeggianti. Renzi ha già fissato un menù strettissimo: niente articolo 18, niente ammortizzatori sociali. Si parlerà solo e soltanto di legge sulla rappresentanza, incentivazione della contrattazione aziendale e salario minimo.

Tre temi in qualche modo residuali del dibattito sul Jobs act – al momento non sono esplicitati nel testo della delega – scelti con grande cura proprio per dividere i sindacati.
Nell’ora di discussione il governo presenterà le sue proposte e lascerà ai soli segretari generali rispondere per pochi minuti, rottamando le trattative interminabili e la presenza di sindacati improbabili.

Con Cisl e Uil alle prese con grandi difficoltà interne – l’addio di Bonanni, la successione a novembre di Angeletti – sarà come al solito la Cgil l’ago della bilancia. Susanna Camusso sente odore di bruciato lontano un miglio: la contrattazione di secondo livello e l’introduzione di un salario minimo suonano come la rottamazione del contratto nazionale e su questo la Cgil farà muro.

E se in un primo momento l’idea di mettere il Tfr in busta paga e – soprattutto – di scrivere una legge sulla rappresentanza sembravano due sviolinate di Renzi a Maurizio Landini, l’asse è ormai definitivamente crollato. Il leader Fiom ha definito una «cavolata» «tassare il Tfr come il salario» e sulla legge sulla rappresentanza – richiesta a gran voce dalla Fiom e dalla Cgil – c’è chi sostiene addirittura che il governo pensi più al modello Marchionne: solo chi firma i contratti può essere rappresentato nelle aziende. Quello di stamattina dunque più che un tavolo di concertazione sarà il primo round di una lunga battaglia tra Renzi e la Cgil.