Per 24 ore, durante la XVI giornata mondiale contro la pena di morte che cade come ogni anno il 10 ottobre, il giornale pakistano Dawn ha trasmesso sul suo sito web No Time to Sleep, una live performance che mostra l’ultimo giorno di un prigioniero del braccio della morte prima dell’esecuzione.

Il tempo scorre tiranno e senza soluzioni di montaggio. Un livestream in cui la camera segue il condannato nei suoi ultimi gesti prima dell’impiccagione: l’ultimo pasto, le abluzioni, la preghiera. Viene testata la resistenza della corda, mostrato il nodo del cappio. Il prigioniero potrebbe non morire immediatamente, nei primi due o tre minuti – spiega in voice over il boia– bisogna allora afferrare il corpo da sotto e tirare.

Esplode nel contesto del Pakistan contemporaneo la dimensione semantica e sintattica codificata dal cosiddetto film carcerario, un genere cinematografico classico dalla straordinaria coerenza iconografica che ha pervaso l’immaginario sull’inaccessibile dimensione della prigionia. Una cultura visuale che il cinema ha contribuito a consolidare e che oggi, come mostra questa performance live trasmessa in streaming, si espande grazie alle testimonianze ottenute dalle lotte per i diritti civili.

Il progetto, infatti, è di Justice Project Pakistan (JPP), un’organizzazione indipendente e multidisciplinare che lotta per far avanzare lo stato di diritto in Pakistan, uno dei paesi che, stando alle loro stime, detiene il più alto numero di prigionieri nel braccio della morte: attualmente circa 8.200.

Quella di Prisoner Z è una storia vera, basata sulla vicenda di Zulfiqar Ali Khan, primo cliente di JPP giustiziato nel 2015 dopo 17 anni nel braccio della morte. Il video è diretto dalla regista e attrice pakistana Kanwal Khoosat a partire dall’idea di Ryan van Winkle, poeta e live artist di New Haven con base attualmente a Edomburgo, e prodotto da Iram Sana in collaborazione con Olomopolo Media e Highlight Arts.

Ma che sia vera o no, che ricalchi o meno la biografia di qualcuno, questa performance girata negli studi di Lahore estrae dalla pratica dell’entertainment un valore testimoniale.

In Pakistan, infatti, il 17 dicembre 2014 è stata revocata la moratoria che durava da sei anni sulla pena di morte per i reati di terrorismo, in seguito al massacro organizzato dai talebani pachistani in una scuola militare a Peshawar in cui sono state uccise 150 persone, tra cui 134 ragazzi. Da allora, stando ai dati di Nessuno tocchi Caino, sono stati impiccati 7 condannati per atti terroristici solo nel dicembre di quello stesso anno. Dal 2015 la moratoria sulla pena di morte è stata revocata per tutti i prigionieri condannati e si sono registrate 478 esecuzioni, oltre l’80% delle quali nel Punjab. Secondo la Commissione per i Diritti Umani del Pakistan, nel 2017 sono state condannate a morte 253 persone. I reati per cui tale pena è prevista sono 27 tra cui blasfemia, terrorismo, sabotaggio di istituzioni strategiche, droga, reati informatici.

Ma è sui primi due che si gioca la partita – discorsiva – in questi tempi recenti, due reati che rendono visibile lo scenario politico di questo paese dalla posizione strategica e dalla storia tempestosa.

Il Pakistan, sesto paese più popoloso del mondo, oltre 200 milioni di persone, ha fin dalla sua nascita nel 1947 una storia difficile incarnata dalla sua doppia anima musulmana: una laica e progressista, l’altra conservatrice e che strizza l’occhio a movimenti e gruppi fondamentalisti.

Dotato di armi nucleari e situato strategicamente tra India, Cina, Iran e Afghanistan, dalla fine degli anni Quaranta è attraversato da una serie di dittature militari che hanno rafforzato la casta dei generali come lobby politica ed economica di primo piano.

La storia recente vede l’assassinio di Benazir Bhutto alla vigilia delle elezioni del 2008 e l’inaugurazione – da allora – di una stagione dei di governi civili che segnano la fine della lunga epoca dei golpe militari, sebbene sia ancora forte il controllo dei generali nel paese.

Nawaz Sharif, leader della Lega Musulmana del Pakistan e già premier in passato, è alla guida della repubblica federale dal 2013 al 2017 ma viene coinvolto nello scandalo Panama Papers e arrestato il 12 luglio scorso al suo rientro da Londra. Le nuove elezioni sono appena due settimane dopo e vedono la vittoria del Partito della Giustizia di Imran Khan, ex stella del cricket prestata alla politica che da un lato abbraccia il conservatorismo religioso, prestando il fianco ad alcune delle richieste degli islamisti radicali, e dall’altro l’apparato militare, attirando l’indignazione degli attivisti per i diritti civili. Populista di difficile definizione è finito recentemente sulle pagine dei giornali internazionali in tema di regolamentazione dei reati che prevedono la pena di morte, su tutti quello di blasfemia di cui il caso di Asia Bibi – donna cristiana nel braccio della morte dal 2010 per il reato di blasfemia contro il Corano e che la Corte suprema del Pakistan ha appena rinviato a giudizio – è emblematico.

Proprio il dibattito sulla pena di morte sembra rendere visibile il posizionamento politico di questo nuovo leader.

Circa 80.000 sono state le visite avvenute durante il giorno dello streaming offerto dal Dawn, numerosi i commenti sotto le immagini come didascalie ai vari “capitoli” della storia di Pisoner Z. Sappiamo, grazie alle inchieste degli attivisti che i detenuti pakistani del braccio della morte sono vittime di abusi in celle strette e sovraffollate. Stanze di 2,7 per 3,6 metri in cui sopravvivono spesso fino a dodici persone. La cella che vediamo nel video è pulita e il prigioniero è solo. Il soffitto è aperto e gli operatori a tratti si palesano con la camera in spalla. È una messa in scena, no hay banda. Per questo possiamo vedere e, soprattutto, riusciamo a guardare. Ma sappiamo che la finzione, di questi tempi, sa raccontare scenari reali e fornire testimonianze controfattuali. No Time to Sleep “recita l’antico credo di chi muore senza perdono”.

Visibile al link: https://www.dawn.com/notimetosleep/