È stata una scelta perfetta l’avere allestito la mostra dell’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg (Santander, 1939) al Museo di Santa Giulia di Brescia (ora chiusa per le disposizioni anti Covid ma visitabile in modalità online). Le sue sculture, dipinti e disegni non potevano trovare luogo più emozionante per essere ammirati che nell’antico monastero benedettino, distribuiti tra le navate della basilica di San Salvatore (scultura), il Coro delle Monache (pittura) e la Cripta (architettura).

Mesa espositiva (foto Alessandra Chamollo)

L’ESPOSIZIONE, curata da Pierre-Alain Croset, rende visibile con rigore i molteplici mezzi artistici impiegati dall’architetto spagnolo e quale sia il suo «entusiasmo per tutte le possibilità creative». Come pochi altri, infatti, Baldeweg sa fare interagire i campi della pittura e dell’architettura, nella convinzione che gli oggetti non siano autonomi, ma dialoghino tra loro. Ha così messo insieme da lungo tempo la ricerca del pittore, che insegue l’«unità visuale» composta di luce e geometria, tecnica manuale ed espressione, con l’abilità dell’architetto che si misura con le qualità dello spazio collocando qualsiasi evento d’arte nell’ambiente.
Il riferimento storico di una simile mutualità di contributi gli è suggerito dall’opera di Sir John Soane: la sua Casa londinese dove la luce zenitale dilava decorazioni e sculture, ma ancor di più la Rotonda della Banca d’Inghilterra, il luogo in cui la cupola, tesa e gonfia, appare priva della gravità. La gravità e la luce sono quelle «variabili essenziali» che consentono di «evocare sensazioni ed emozioni» tali da trasfigurare l’oggetto architettonico da «inerte o isolato» a occasione per stimolare lo sguardo, «come se questo fosse uno strumento musicale il cui scopo è produrre suoni e musica». È sufficiente trovarsi davanti il modello del Palazzo dei congressi di Castilla-León (1985-92) con la sua cupola, al disegno della sezione della Biblioteca Hertziana di Roma (1995-2012) o a quella del Centro per le arti sceniche della Comunità di Madrid (2000-08) per verificare come con tenacia Baldeweg ricerchi l’«attivazione» di quelle forze naturali che cela la tettonica.

L’AFFINAMENTO di questo processo estetico e sensoriale è un percorso che si fonda su una lunga preparazione artistica, infatti, solo dopo i quarant’anni egli giunge a realizzare i suoi primi progetti. Prima della laurea in architettura a Madrid ci sono gli studi alla scuola di belle arti di San Fernando, poi quattro anni (1971-75) al Center for Advanced Visual Studies del Mit con György Kepes. È lì che Baldeweg inizia a creare le sue sculture ispirate alla gravità, al magnetismo alla luce e come lui stesso racconta nella lunga intervista con Croset in catalogo (Skira), sono le sculture ad essere basilari per la sua stessa «definizione di architettura come sistema dinamico, in quanto cercano di rendere visibili i flussi magnetici».
In mostra il Tavolo espositivo (2004), un grande piano in legno dove si dispongono trentuno oggetti che sfidano le leggi della statica, mostrano il livello della riflessione concettuale dell’architetto spagnolo, mentre La finestra (2015), sospesa nell’abside, graficizza tridimensionalmente i raggi di luce. La luce è infatti la vera ossessione di Baldeweg, in particolare quella proveniente d’alto indagata con installazioni (Camera oscura, 1972), scatole (Le cinque unità di luce, 1973) e in una serie di modelli astratti (Strutture di luce nella luce, 1999).

LA SORPRESA più grande è però quella che riserva la sua pittura. I suoi dipinti astratti nell’unico formato quadrato 2×2 invade lo spazio del Coro delle Monache dove causalità e invenzione convivono in esperimenti di luce e colore. È qui che si comprende la sua tesi che l’arte non è «in senso stretto sulla tela o sull’oggetto», ma in un «luogo intermedio» tra l’opera e l’osservatore, in altre parole in un ambiente pluridimensionale che risuona e dove ci convinciamo che a volte «la pittura si abita».