L’urbanizzazione ha svolto un ruolo cruciale nell’assorbimento del surplus di capitale, agendo su una scala geografica sempre più vasta, ma al prezzo di violenti processi di distruzione creatrice che hanno espropriato le masse di ogni possibile diritto alla città. Questo processo sfocia periodicamente in grandi rivolte, come nel 1871 a Parigi, quando gli espropriati si sono sollevati per riprendersi la città che avevano perso. In modo analogo, i movimenti sociali urbani del 1968, da Parigi e Bangkok, da Città del Messico e Chicago hanno cercato di realizzare forme di vita urbana diverse da quelle imposte dai costruttori capitalisti e dallo stato. Se, come appare probabile, le difficoltà finanziarie dell’attuale congiuntura dovessero aggravarsi, ponendo fine, dopo decenni di trionfi, alla fase neoliberista, postmoderna e consumistica di assorbimento del surplus attraverso l’urbanizzazione, e se ne seguisse una crisi di proporzioni ancora maggiori, allora dovremmo domandarci: dov’è il nostro Sessantotto o, con ancora più forza, dov’è la nostra Comune? La risposta politica, riflettendo le trasformazioni del sistema fiscale, non può oggi che essere molto più complessa, nella misura in cui il processo urbano assume dimensioni globali ed è segnato da tutta una serie di crepe, incertezze e sviluppi geografici diseguali.

Ma le crepe, come cantava Leonard Cohen, sono anche «ciò che lascia entrare la luce».
Segnali di rivolta sono ovunque (le agitazioni in Cina e India sono croniche, l’Africa è sconvolta da guerre civili, l’America Latina è in fermento, ovunque stanno emergendo movimenti autonomisti, e anche negli Stati Uniti alcuni indizi politici suggeriscono che la maggior parte della popolazione, di fronte a disuguaglianze sempre più feroci, inizia a pensare che «quando è troppo è troppo»). Ognuna di queste rivolte potrebbe diventare improvvisamente contagiosa. E tuttavia, a differenza del sistema finanziario, i movimenti sociali di opposizione, urbani e metropolitani, per quanto diffusi in tutto il mondo non sono davvero connessi. Anzi, molti non hanno nessun collegamento. È improbabile, quindi, che una singola scintilla scateni un incendio nella prateria, come sognavano un tempo i Weathermen. Ci vorrà qualcosa di molto più sistematico. Ma se questi vari movimenti di opposizione dovessero in qualche modo incontrarsi e coalizzarsi, per esempio, intorno alla parola d’ordine del diritto alla città, che cosa dovrebbero chiedere?

La risposta è abbastanza semplice: un maggiore controllo democratico sulla produzione e sull’uso del surplus. Dal momento che l’urbanizzazione rappresenta uno dei principali canali di assorbimento delle eccedenze, il diritto alla città consiste nell’instaurazione di un controllo democratico sull’utilizzo di tali eccedenze attraverso l’urbanizzazione. Avere un surplus di produzione non è un male, anzi, in molti casi è decisivo per una sopravvivenza accettabile. Nel corso dell’intera storia del capitalismo, una parte del plusvalore prodotto è stata prelevata dallo stato attraverso la tassazione, e nelle fasi di governo socialdemocratico la quota prelevata dallo stato è sensibilmente aumentata, collocando gran parte dell’eccedenza sotto il controllo statale. Il programma neoliberista dell’ultimo trentennio ha puntato a privatizzare il controllo del surplus. I dati mostrano però che in tutti i paesi Ocse la percentuale del prodotto complessivo in mano allo stato è rimasta sostanzialmente costante dagli anni settanta. Il risultato più importante dell’attacco neoliberista è stato quindi di impedire che la quota dello stato crescesse come negli anni Sessanta. Un’ulteriore innovazione è consistita nella creazione di nuovi sistemi di governance che integrino l’interesse pubblico e quello privato e, servendosi del potere finanziario, assicurino che il controllo sull’erogazione del surplus, esercitato dall’apparato statale, favorisca i grandi gruppi economici e le classi superiori nel dar forma al processo urbano. In definitiva, l’aumento della percentuale del surplus controllata dallo stato potrà avere effetti positivi solo se si riuscirà a riformare lo stato, riportandolo sotto un controllo