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La lotta delle kurde spaventa Ankara

La lotta delle kurde spaventa AnkaraDonne kurde delle Unità di protezione popolare – Reuters

Siria A Rojava in atto l'esperimento democratico kurdo: uguaglianza di genere e democrazia dal basso minacciano lo Stato Islamico e il capitalismo moderno

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 19 ottobre 2014

Alla Turchia Kobane fa così paura da guardare in silenzio al massacro dei kurdi nel nord della Siria. A spaventare Ankara, lo Stato-nazione turco, è l’esperimento in atto da tre anni a Rojava, la regione kurda al confine che ha messo in pratica l’ideologia del nemico di sempre, il Partito Kurdo dei Lavoratori e del suo leader prigioniero, Abdullah Ocalan.

Spaventati dall’esperienza kurda è anche lo stesso Stato Islamico, potere oppressivo e misogino che ha oggi Kobane come target. Un assedio lungo un mese, ormai, che è specchio della contrapposizione tra Rojava e il Califfato: «Le donne kurde sono sempre state sottoposte ad una doppia oppressione, in quanto kurde e in quanto donne – ci spiega Nursel Kiliç, rappresentante internazionale del movimento delle donne kurde Kjk, durante un convegno a Roma lo scorso 11 ottobre – Oggi sono il bottino di guerra dell’Isis perché impegnate a creare reti di emancipazione tra le donne kurde, assire, alawite e turcomanne. Nel luglio 2014 gli attacchi dell’Isis si sono intensificati fino all’apice, l’attacco a Sinjar in Iraq ad agosto. L’Isis rapisce, violenta e vende le donne nei bazar della schiavitù, ha legalizzato i “matrimoni temporanei”, usando una propria personale interpretazione dell’Islam».

«Dal 1978, anno di fondazione del Pkk ad oggi, il movimento ha vissuto cambiamenti interni e trasformazioni, volte a trovare un’alternativa al binomio socialismo reale e modernità capitalista – aggiunge Havin Güneser, donna kurda e membro dell’iniziativa per la libertà di Ocalan – Nella visione di Ocalan la schiavitù delle donne è la base della colonizzazione e lo sfruttamento dei popoli perché il capitalismo è l’ultima fase e insieme l’apice della società patriarcale del passato».

Dalla teoria alla pratica. Rojava, approfittando del caos prodotto dalla guerra civile siriana, ha messo in piedi negli ultimi tre anni un esperimento politico senza precedenti. Un esperimento in cui le donne kurde sono pilastro: «I media si sono accorti della resistenza curda nella regione e in particolare del ruolo delle donne – ci spiega Dilar Dirik, ricercatrice curda all’Università di Cambridge – Li ha stupiti che donne, che consideravano provenire da società patriarcali e conservatrici, abbiano imbracciato le armi contro l’Isis. Ma si continua ad ignorare il contesto, il processo politico ed ideologico che non si ferma alla lotta armata».

Il processo è quello che ha condotto alla nascita di un confederalismo democratico, cantoni autonomi basati su principi ideologici precisi: democrazia dal basso gestita da consigli locali e popolari che rappresentino tutte le etnie presenti, copresidenza nei consigli e nelle cooperative di donne e uomini, uguaglianza di genere, ecologia, coesistenza etnica, economia cooperativa. Un’alternativa che oggi fa temere alla vicina Turchia un possibile contagio. Kobane è un pericolo per lo status quo di certi Stati-nazione, perché prospettiva alternativa all’oppressione del potere costituito.

«All’inizio del 2014, è stata dichiarata la nascita di tre cantoni autonomi nel Rojava, specchio di una vera rivoluzione sociale – prosegue la Dirik – Nonostante la marginalizzazione politica, economica e diplomatica imposta a livello globale e regionale (i kurdi non sono stati invitati a Ginevra II), si va avanti con l’autogoverno dal basso, laico. Con un sistema che prevede la rappresentanza di genere a tutti i livelli, la creazione di unità di difesa delle donne, università delle donne, la loro inclusione nel sistema economico. È ovvio che Rojava è un target anche per lo Stato Islamico che ha dichiarato guerra alle donne: rapimenti, matrimoni forzati, stupri, vendite al mercato degli schiavi, strumentalizzazione della religione e del concetto di onore».

«L’ideologia fascista e sciovinista dello Stato Islamico non solo strumentalizza la religione per imporre la propria egemonia, ma radicalizza ed estremizzata il sistema strutturale di violenza che nel resto del mondo opprime le donne. Seppur rappresentato come movimento arretrato, utilizza molti degli strumenti patriarcali dello Stato-nazione. Le donne kurde spaventano l’Isis non perché equipaggiate a livello militare, ma perché la loro ideologia sfida le basi stesse dello Stato Islamico».

Ma Rojava e il suo socialismo moderno non sfidano solo il califfo al-Baghdadi. Sfidano le basi del capitalismo moderno, dello Stato-nazione fondato su diseguaglianze strutturali e dello stesso Kurdistan filo-statunitense iracheno di Barzani. Una sfida che hanno messo in piedi negli anni del caos siriano, cercando di farsi strada nella crisi di Damasco e l’incapacità delle sue opposizioni, moderate e islamiste, di generare alternative credibili.

Fin dall’indipendenza siriana dalla Francia, la comunità kurda non è mai stata realmente integrata nello Stato, ritrovandosi nel 2012 fuori dallo schema della guerra civile. Né con le opposizioni, a cui le Unità di protezione popolare (le Ypg) e il Partito di Unione Democratica (Pyd) non hanno mai aderito e anzi hanno combattuto, né con Assad e il partito Baath da cui hanno ottenuto ben poco riconoscimento nei decenni precedenti. A partire dai diritti nazionali, sociali, culturali e politici, secondo uno schema che Salih Muslim, co-presidente del Pyd definisce «politica di de-identificazione» volta ad infilare la comunità kurda nel melting pot del nazionalismo arabo sponsorizzato da Damasco.

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