A Roma per presentare il documentario Naila and the Uprising di Julia Bacha, Naila Ayesh e il marito Jamal Zakout si sono conosciuti da studenti in Bulgaria negli anni 80, entrambi militanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Tornati a Gaza, dove si sono sposati, hanno preso parte attiva alla prima Intifada scoppiata nel 1987. Una partecipazione pagata a caro prezzo da entrambi – detenzioni, torture, esilio – e ripercorsa dalla regista con interviste, filmati d’archivio pubblici e privati e grazie all’animazione che ricostruisce i ricordi, ormai preclusi alla macchina da presa, di una stagione conclusa dagli Accordi di Oslo.

Qual è l’importanza di continuare a raccontare e ripercorrere la prima Intifada?

Naila Ayesh: Un film del genere, a oltre trent’anni trascorsi dalla prima Intifada, è utile per capire dove ci troviamo oggi in quanto palestinesi, le differenze da allora. Viene documentata un’epoca molto importante, in cui l’intero popolo palestinese – uomini, donne, bambini -ha preso parte al movimento contro l’occupazione. È fondamentale raccontare e insegnare quegli eventi alle giovani generazioni, che devono essere alla guida del movimento nel futuro. Inoltre c’è un grande bisogno di solidarietà da parte della comunità internazionale, che dai tempi della prima Intifada è enormemente diminuita.

Dal film emerge anche il ruolo fondamentale delle donne durante la protesta, in seguito molto ridimensionato.

NA: Le donne si ritrovano a combattere oggi su due fronti: contro l’occupazione israeliana e per i propri diritti all’interno della società palestinese.
Jamal Zakout: Credo che quando è stata istituita l’Autorità Palestinese si sia data una missione a senso unico: completare il processo di pace. Ma la strategia adottata è stata completamente sbagliata, in primo luogo perché non è stato elaborato alcun pensiero su che genere di Paese si voleva costruire. Dopo Oslo, il movimento nazionale palestinese si è diviso su due linee principali, rappresentate dall’Olp e dagli islamisti. Ed entrambe hanno sminuito il potere del movimento popolare: non solo delle donne ma di tutta la società civile. Non c’è stata attenzione nei confronti dei diritti civili e umani in generale. Sia l’Olp che gli islamisti hanno «confiscato» la volontà popolare: alla gente è stato detto di restare a casa e di non prendere parte attiva alla conquista dei propri diritti. E con la morte di Arafat c’è stata subito la divisione: Hamas ha vinto le elezioni, si è impossessata di Gaza e la democrazia è scomparsa. E con essa il ruolo della gente.

Come viene raccontato nel documentario, nella prima Intifada è stato fondamentale anche il coinvolgimento dell’opinione pubblica israeliana.

JZ: Quando siamo riusciti a dare vita a una lotta che attraversava tutti i livelli della vita del popolo palestinese, gli israeliani hanno cominciato a guardarci con occhi diversi, ammirati. Per la prima volta la società israeliana è stata obbligata a confrontarsi con dei dilemmi: fino a quando priveremo i nostri vicini della loro libertà? E, dal momento in cui viene accettata una soluzione a due Stati, fino a quando imporremo il nostro dominio su un’altra nazione?

Le elezioni in corso in Israele testimoniano che le cose sono molto cambiate.

JZ: Israele sta scivolando verso il fascismo, ma proprio i cittadini israeliani saranno le prime vittime dell’eventuale affermazione di un governo propriamente fascista. Purtroppo la nostra influenza non è più quella di prima, perché siamo deboli e divisi, e il governo israeliano si sente le mani sempre più libere nei confronti della Palestina. Gli Usa con Trump hanno smesso di contestare la confisca delle terre e Netanyahu ha perfino potuto dichiarare che in caso di vittoria annetterà tutti gli insediamenti in Cisgiordania. Una cosa del tutto illegale, ma per ora non ho ancora sentito nessuna risposta dalla comunità europea. Non c’è nessuna reazione alle politiche della destra israeliana. Che vinca Netanyahu o chiunque altro continueranno a sentirsi liberi di fare ciò che vogliono senza doverne rendere conto. Ma l’Europa dovrebbe fare molta attenzione nel concedere la scofitta della soluzione a due Stati: non è stato un progetto palestinese ma globale, e in particolare figlio dell’Europa stessa.