Stroncato con ferocia dalla critica americana, distribuito quasi solo via streaming in Usa, e più o meno rinnegato dal suo autore (che ha citato una lavorazione tormentata e un takeover dei finanziatori nelle ultime fasi della postproduzione; rifiutando di fare quasi tutta la promozione del film), Domino è un film ipnotico. A tratti pieno di idee e di passione, in alcuni momenti bizzarramente svogliato. Come il suo lavoro precedente, Passion, Domino trasmette la frustrazione di un De Palma che morde il freno, stretto nei limiti di una produzione indipendente europea – il suo un cinema prepotentemente autoriale, che però dà il meglio quando sboccia dal cuore (dei valori di produzione) del sistema hollywoodiano. Al suo fianco non «bastano» nemmeno la colonna sonora bernardherrmaniana del collaboratore di sempre, Pino Donaggio, e un occhio abile e capace di usare creativamente la tavolozza del colore come quello del direttore della fotografia Jose Louis Alcaine, che ha girato molti film di Almodovar.

ROSSO DENSO, come il sangue, e come i pomodori nelle cassette ammucchiate una sopra l’altra in un cortile di Copenaghen, è il colore di Domino, un road movie/thriller dalla Danimarca alla Spagna che apre e chiude con espliciti, complicati, omaggi a Hitchcock e riffa in modo spregiudicato sulla strategia mediatica dell’Isis, l’ipocrisia della Cia, il tappeto rosso (anche lui) di un festival internazionale modellato sulla montée des marches di Cannes (che De Palma aveva già «movimentato» in Femme Fatale) e il desiderio di vendetta personale di tre personaggi.

PARTE della «scomodità» di Domino, quello che lo fa sembrare così fuori dal tempo, anche rispetto a serie tv di matrice ideologica diversa come 24 e Homeland è senz’altro quel suo spietato frullare il tema del terrorismo islamico che ha insanguinato l’Europa (le video esecuzioni dell’Isis, gli uomini/donne bomba, il mondo delle cellule segrete) nel meccanismo del genere, dandolo in pasto semplicemente al….. cinema. Protetto da Pauline Kael e da alcuni suoi studenti che scrivono ancor oggi, ma detestato da gran parte della critica americana che non ama il suo vistoso formalismo, De Palma ricava un thriller affascinante anche da un film poco riuscito – senz’altro superiore alle molteplici, pallide imitazioni dei Jason Bourne, di cui Domino sembra un’arrabbiata versione di serie B.

DOPO UNA NOTTE di sesso con la fidanzata, il poliziotto Christian (Nikolaj Coster-Waldau, da Game of Thrones) dimentica la sua pistola a casa. Questa leggerezza, sottolineata in primo piano dal regista, costerà la vita al suo partner quando quella che loro credevano una disputa tra marito e moglie si rivela il teatro di un sanguinoso omicidio. Il morto è un uomo dell’Isis già nel mirino della Cia (visto che ci sono pochi soldi è praticamente incarnata solo da Guy Pearce ), l’assassino un libico da inseguire sui tetti di tegole danesi, con esplicite citazioni da Vertigo.

SOSPESO dalla Forza e stregato dal senso di colpa, Christian si mette sulle tracce del fuggitivo insieme a una collega (Carice van Houten, sempre da Game of Thrones) che – come lui – ha interessi extra professionali per vendicare il morto. A sua volta, la loro preda cerca vendetta, tra le capitali europee, di cellula in cellula, su una pista che dovrebbe portarlo all’architetto di una serie di drammatici attentati. Quello conclusivo è previsto in un’arena di Cordoba. Usando (come in Femme Fatale) un crescendo musicale che ricorda il Bolero di Ravel, De Palma rallenta la scena moltiplicando la suspense – è la corrida invece della sinfonia alla Royal Albert Hall dell’hitchcockiano L’uomo che sapeva troppo, ma l’uso degli spalti, del pubblico, del personaggio femminile (era Doris Day) e degli sguardi è molto simile. Qui, invece del giubbotto bomba (protagonista di una bella scena in iperteorico split screen in un altro punto del film), De Palma sottolinea la distanza (anche psicologica) con cui il terrorismo può operare, affidando la bomba a un drone che vola dolcemente e implacabilmente verso la folla.