ExtraTerrestre

La lobby industriale sta pianificando un mondo di plastica

Un mondo soffocato dalla plastica, tra le più grandi emergenze del nostro tempo, di cui spesso non vediamo che una faccia. La faccia pratica e colorata di oggetti fabbricati in […]

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 23 novembre 2023

Un mondo soffocato dalla plastica, tra le più grandi emergenze del nostro tempo, di cui spesso non vediamo che una faccia. La faccia pratica e colorata di oggetti fabbricati in un materiale dai mille usi quotidiani, che la fa da padrone tra i rifiuti sulle nostre spiagge o abbandonati per strada. Dimenticando o talvolta ignorando che le sue tracce in forma di microplastiche si trovano ovunque, negli oceani come nell’acqua potabile, nel cibo come nell’aria, nei nostri organi come nel nostro sangue. E che la plastica inizia a inquinare fin dalla sua produzione, con emissioni dannose già in fase di estrazione degli idrocarburi fossili, sua principale materia prima. Un approccio, quello all’intero ciclo di vita, che dovrebbe guidare chi ci governa nel contrasto all’inquinamento da plastica. Ma che è spesso subordinato agli interessi di colossi industriali, a scapito delle comunità più esposte, come denunciato nei giorni scorsi da Greenpeace.

È il caso dell’accordo di libero scambio, in via di negoziazione, tra l’Ue e i Paesi del Mercosur (acronimo per Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) che prevede il taglio e la graduale eliminazione delle tariffe doganali per le esportazioni di plastiche dall’Europa al Sud America: si va dalle materie prime plastiche ai prodotti usa e getta, come le posate in plastica monouso il cui commercio e utilizzo sono vietati nell’Ue. Una formulazione da due pesi e due misure, rivela il nostro report The EU’s Dirty Plastic Secret, che avvantaggerebbe l’industria della plastica e le grandi aziende petrolchimiche con sede in Unione europea, incentivando il commercio di prodotti dagli impatti notevoli su clima, biodiversità e salute. In piena transizione energetica, l’Ue-Mercosur costituirebbe un’ancora di salvezza per le cororation con un modello di business fossile insostenibile, seppure in contrasto con gli obiettivi globali di riduzione della plastica.

Proprio la settimana scorsa a Nairobi, sotto l’egida dell’Onu, 175 Stati hanno partecipato al terzo round di negoziati (INC-3) per dotarsi di un Trattato globale sulla plastica, strumento giuridicamente vincolante che ambisce a risolvere la crisi in atto: il processo diplomatico dovrà trovare una sintesi entro il 2024 ma, a oggi, ha scontato le interferenze degli interessi legati ai fossili. Basti pensare che i lobbisti del petrolchimico all’INC-3 erano il 36% in più di quelli all’INC-2 di Parigi, più del triplo degli scienziati della Coalizione per un efficace trattato globale sulla plastica, come rivela un’analisi del Centro per il diritto ambientale internazionale (CIEL) supportata da Greenpeace.

D’altro canto, numeri e scenari della crisi non ammettono indugi: dal 2000 al 2019 la produzione di plastica è raddoppiata raggiungendo 460 milioni di tonnellate e dovrebbe triplicare entro il 2050; il 99% della plastica prodotta deriva da gas e petrolio, mentre appena il 9% dei rifiuti in plastica viene riciclato. Se non agiamo al più presto, la plastica consumerà il 13% del nostro carbon budget, la quantità di emissioni di gas serra che possiamo permetterci per contenere il riscaldamento globale sotto la soglia critica di 1,5°C. Target rigorosi e globali sono imprescindibili per arginare un’emergenza incontrollata e, come per il clima, scongiurare un punto di non ritorno: ai nostri leader resta un anno per dimostrare un livello di coraggio e ambizione ancora non visti, e tagliare almeno il 75% della produzione di plastica entro il 2040. Perché se la plastica si appresta a diventare il nuovo piano B dell’industria petrolchimica, va di certo tenuto a mente che un Pianeta B è una possibilità che non esiste.

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