Lo sguardo vaga nervoso prima di fermarsi sull’interlocutore, tradendo l’estremo pudore a raccontarsi come un simbolo, per lei che ha scelto la letteratura come «l’arte di parlare la lingua delle ferite», un modo per dare voce a quanti, non solo in Turchia, sono privati prima di tutto della possibilità di narrare la propria storia. Eppure, suo malgrado, Asli Erdogan è diventata anche in prima persona una testimone della resistenza alla barbarie.

Tra le scrittrici turche più note e apprezzate in tutto il mondo, con all’attivo oltre una decina di opere nelle quali la letteratura incontra la poesia – Keller ha pubblicato la raccolta di racconti Il mandarino meraviglioso -, giornalista che racconta da decenni la condizione delle donne come la guerra sporca combattuta contro i curdi, è stata tra i fondatori del primo centro di arte e cultura di Díyarbakir, Erdogan è stata arrestata nell’estate dello scorso anno per la sua collaborazione con il giornale Özgür Gündem, chiuso dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio, accusata di aver sostenuto il Pkk, considerato dal regime turco come un’«organizzazione terroristica», e ha passato 132 giorni in carcere.
Malgrado la mobilitazione internazionale in suo favore, su di lei pesa ancora l’accusa di «aver agito per la distruzione dell’unità dello Stato», reato punito con l’ergastolo, e un processo che ripartirà entro marzo. La scrittrice che ha scelto di non lasciare la Turchia, continua a raccontare con coraggio il lato in ombra delle vicende nazionali, come ha fatto con la raccolta di storie e interventi Neppure il silenzio è più tuo (Garzanti, pp. 138, euro 15) che ha presentato recentemente anche nel nostro paese.

In questo libro definisce i contorni del nazionalismo turco con l’espressione «esistere nell’assenza», per il modo in cui il mito nazionale si è alimentato negando l’esistenza degli altri popoli, prima gli armeni e quindi i curdi, e legittimando per questa via i crimini commessi contro di essi. Il presente della Turchia si è edificato su una menzogna collettiva?
Senza alcun dubbio. In uno dei miei testi scrivo che la Turchia è come «un edificio nelle cui cantine sono ammassati milioni di corpi». Lo Stato turco si è formato nel corso di una guerra e mentre l’Impero ottomano si stava sgretolando. Proprio perché si cercava di costruire una nazione che non esisteva ci si basò su una narrazione altrettanto inventata che, in seguito, non è più stata messa in discussione. Una finzione che poggia sul sangue di milioni di persone e sull’esclusione di interi popoli: dal genocidio degli armeni, all’attuale guerra contro i curdi. Eppure, il credere in questa identità imposta con la forza, e nello Stato ultramilitarista che fin dai tempi di Mustafa Kemal ne ha incarnato l’ideologia, è qualcosa di profondamente radicato tra i turchi, per molti dei quali resta semplicemente indicibile che esistano anche curdi, armeni e altre comunità che hanno diritti e storia. Il problema è che spesso gli intellettuali sono gli unici ad avere il coraggio di porre la società turca di fronte a uno specchio, facendo emergere così anche i crimini della nostra storia nazionale. Qualcosa che non va giù ai potenti e ai dittatori del momento ma anche all’uomo della strada, che di quella cultura nazionalista è spesso convinto sostenitore.

Su questo nazionalismo aggressivo, si è poi innestato l’islam politico. L’appello alla religione ha esteso il consenso verso il potere?
Inizialmente, Erdogan ha utilizzato i riferimenti religiosi per criticare il tradizionale nazionalismo turco, quello di ispirazione laica, a cui hanno guardato in passato anche i militari golpisti. In seguito, ha capito che avrebbe invece tratto più vantaggio dall’unificare le due tendenze e ha proposto una sorta di sintesi tra questi due aspetti, definendo i contorni di un nazionalismo islamista. Volendo ricorrere a un’immagine, è come se tenesse in una mano il Corano e, nell’altra, la bandiera turca. Su questa base è riuscito a mettere insieme settori sociali e aree diverse del paese, il mondo rurale e i ceti popolari urbani che, sulla carta, potrebbero non avere i medesimi interessi, e ha costruito il forte consenso di cui gode oggi perché evoca simboli e un immaginario in cui diverse componenti della società turca credono di potersi identificare.

La storia della Turchia moderna è segnata da autoritarismo, colpi di Stato e repressione verso le sinistre e le voci critiche. Le azioni di Erdogan contro gli intellettuali sono nel solco di una drammatica tradizione?
In realtà, credo che ai livelli di censura e repressione nei confronti del mondo della cultura e dell’informazione cui assistiamo oggi non fosse arrivata neppure la giunta militare degli anni ottanta. Al momento almeno trenta scrittori e più di centocinquanta giornalisti si trovano in carcere. I membri del Pen International hanno dichiarato di non essersi mai dovuti misurare con una situazione altrettanto grave da quando l’associazione fu fondata a Londra nel 1921. Dopo che milleduecento accademici hanno firmato un appello contro il suo governo, Erdogan ha stabilito che la metà fosse licenziata. Il risultato è che sono scomparsi corsi di laurea e hanno chiuso dipartimenti, come quello dedicato al teatro dell’ateneo di Ankara. Rischiamo di veder scomparire, nello spazio di pochi anni, quel già fragilissimo mondo culturale turco che si è costruito e non senza fatica fin qui. Un danno che si ripercuoterà sulle generazioni future.
L’essere una delle scrittrici turche più note e tradotte all’estero non le ha impedito l’arresto e accuse molto gravi. Le proteste internazionali sul suo caso non hanno avuto eco in Turchia?
Certamente la mobilitazione in mio favore, come per altri arrestati, ha consentito che non fossi detenuta in un carcere di massima sicurezza e permesso che le condizioni della mia detenzione siano state migliori di quelle delle donne curde, accusate di appartenere al Pkk, che si trovavano nella mia stessa prigione. Ma quanto al fatto che io sia una scrittrice nota fuori dal mio paese, ha avuto l’effetto contrario di quanto si possa pensare. Per capire davvero la repressione scatenata da Erdogan anche contro gli scrittori si deve tenere conto del fatto che per questa via egli interpreta quel sentimento anti-intellettuale che è ben radicato nella società turca. L’altro elemento che il regime sfrutta in modo esplicito, è quella sorta di complesso di inferiorità nei confronti dell’Europa presente tra i turchi e che è pronto a trasformarsi in aperto sciovinismo. Arrestare o processare qualcuno che è noto fuori dai confini nazionali, significa dire a questa parte dell’opinione pubblica locale: «non abbiamo paura di niente». Erdogan vuol dimostrare di non avere alcun timore reverenziale verso paesi più potenti. La conseguenza è che chiunque potrebbe essere messo in carcere, perfino un premio Nobel come Pamuk.

«Neppure il silenzio è più tuo» si chiede «cosa può fare la parola in questa situazione». Quale il ruolo possibile per gli intellettuali, e il suo dopo questa drammatica esperienza, nella Turchia di oggi?
Questa è una domanda molto importante, ma credo che la risposta vada data collettivamente dalla società turca. Andare in prigione è come andare in guerra. È un’esperienza che ti cambia per sempre, diventi più forte e più debole allo stesso tempo. C’è una frase, attribuita a Nietzsche: «quello che non ti uccide ti rende più forte».Non sono d’accordo. Quando subisci un trauma, qualcosa in te muore e qualcosa sopravvive. È come se ti spaccassi a metà: da una parte c’è un sopravvissuto, dall’altra una vittima. E spesso le due parti non riescono a parlarsi. Io sono ancora sotto processo e rischio l’ergastolo per quello che ho scritto. Devo convivere con l’ansia e la paura ogni giorno. Di quanto ho vissuto scriverò solo quando sarò in grado di trasformarlo in arte, non solo di raccontarlo. In ogni caso, come scrittrice non ho mai avuto grandi ambizioni, ma mi sono sempre ripromessa di dare voce, attraverso ogni mio scritto, a chi di quella voce era privato. Non so se questo contribuirà o meno a cambiare le cose, ma so che lo devo fare. E che, in un modo o nell’altro continuerò a farlo.