Conversazione con Giorgio Gaber

Questa intervista è stata realizzata nel 1990 al Teatro Giulio Cesare di Roma (oggi multisala cinematografica) e apparsa in quello stesso anno sul numero 35 di “Blu – Il mensile di musica tutta italiana”, una rivista poco diffusa e poco letta all’epoca, di cui è molto difficile reperire le annate. Ripubblichiamo qui, con qualche correzione e integrazione, sia la conversazione sia un breve saggio, apparso sulla medesima rivista, che analizza il rapporto tra le canzoni di Gaber e i romanzi dello scrittore francese Louis-Ferdinand Céline, assunto a principale fonte di ispirazione dei testi scritti dal musicista insieme a Sandro Luporini.

In questi mesi Giorgio Gaber sta portando in scena le repliche del suo ultimo spettacolo teatrale, Il grigio, la cui particolarità è quella di essere il suo primo recital interamente senza canzoni. Il testo è però firmato ancora una volta dal duo Gaber-Luporini; i temi in qualche modo sono quelli di sempre, i dubbi e le paure di un uomo come tanti colto in un momento di crisi che compie un bilancio della propria esistenza. Prima di arrivare al “topo” (il protagonista della pièce, un personaggio tanto più feroce e inafferrabile perché alberga dentro ognuno di noi), Gaber ha percorso una lunga carriera teatrale – ormai più di vent’anni – attraverso spettacoli composti da canzoni e monologhi improntati sui più svariati argomenti, dalla politica al sociale, dai sentimenti al consumismo, dall’infanzia alla morte. Anche se la parola impegno sarebbe da lui rifiutata per un misto di pudore e modestia, certamente i suoi spettacoli sono e continuano ad essere impegnati, non in senso strettamente “politico” e neppure “civile”, ma piuttosto esistenziale. Così come a una certa funzione di critica costruttiva hanno sempre assolto le sue canzoni, molto particolari nel panorama della nostra musica leggera e d’autore, soprattutto per la loro struttura teatrale e letteraria, richiamata dalla fortunata definizione di teatro-canzone.

Insieme a lui abbiamo cercato di ricostruire in sintesi le tappe principali della sua personalissima esperienza.

Quando è stato il momento in cui hai deciso di smetterla con Sanremo, le trasmissioni televisive e un certo tipo di canzoni per dedicarti al teatro?

La decisione è maturata alla fine degli anni Sessanta. C’era stata la morte di Tenco nel ’67, la situazione cominciò ad essere pesante. Incisi quasi contemporaneamente a Sanremo un disco impegnato o impegnativo, L’asse di equilibrio, in cui c’erano già alcune cose che mi trascinai poi nel Signor G; quindi feci un recital con Mina per due anni, poi – intorno al ’69 – decisi di chiudere con i canali ufficiali e mi dedicai alle rappresentazioni dal vivo.

Tra le cause di questa scelta, dunque, ci fu anche la morte di Tenco?

Eravamo molto amici. Non fu comunque quell’episodio in particolare a farmi smettere con Sanremo. In generale l’aria della musica leggera non mi piaceva; avevo già lavorato in televisione e la scoperta del palcoscenico, della dimensione teatrale, mi diede un altro tipo di spinta, di stimolo.

Il Signor G è quasi ancora un esperimento, uno spettacolo molto breve rispetto ai successivi.

Si, fu realizzato addirittura in sala d’incisione, da Zanibelli, dove registravano le grandi orchestre, e qui invitai come pubblico circa 300 persone. La scelta della sala fu dettata da ragioni tecniche.

Dialogo tra un impegnato e un non so del 1972-73 è invece il primo spettacolo registrato dal vivo in un teatro, ed è anche quello che contiene le prime canzoni di grande successo. Lo shampoo e Un’idea; le senti ancora attuali?

Un’idea no, non mi sembra più attuale nel concetto, fa parte di una mia posizione teatrale, ovvero la fisicizzazione delle cose che si fanno, della digestione delle idee. Il ritornello forse andrebbe ancora bene, bisognerebbe cambiare gli esempi delle strofe.

Ci sono poi le canzoni politiche che testimoniano del tuo collocamento autocritico e un po’ eretico all’interno della Sinistra: Gli operai ad esempio.

C’era anche Al Bar Casablanca… Diciamo che la mia posizione era di partecipazione al “collettivo” ma con delle riserve. Quando portai in scena Dialogo tra un impegnato e un non so mi veniva già rivolta l’accusa di qualunquismo che mi sono trascinato per anni. In realtà io e Luporini mettevamo in dubbio l’accettazione acritica della massificazione, dell’essere contro, che in parte condividevamo ma senza aderire a certi slogan. Ecco perché io mi identificavo sia nell’impegnato sia nel non so. Il discorso continuò anche dopo con Far finta di essere sani, che conteneva Chiedo scusa se parlo di Maria, una canzone decisiva per quanto riguardava la nostra posizione. Tieni presente che proprio in quel momento si cominciavano a staccarsi dai gruppi extraparlamentari frange le quali affermavano che forse anche i fatti privati c’entravano con quello che ci accadeva intorno. Anch’io ribadivo che non c’era differenza tra pubblico e privato, tra politico e personale, tra contenuto e forma e quindi Maria voleva dire la libertà, la rivoluzione…

A quale disco di questo periodo sei più legato?

A Far finta di essere sani, che è il più brutto album inciso ma il più bello spettacolo portato in scena. Purtroppo il disco uscì prima dello spettacolo e conteneva soltanto canzoni registrate in sala, mentre lo spettacolo era composto da qualche canzone in meno ma da molti monologhi. Fu davvero un errore non aver registrato anche lo spettacolo.

E’ sempre in questo periodo che nasce il tuo interesse per Céline?

Si, nei monologhi di Far finta di essere sani c’erano molti spunti presi dal Voyage au bout de la nuit. Per esempio La dentiera si ispirava ad un episodio del libro che io e Luporini scoprimmo nell’estate di quell’anno.

Come mai decideste di utilizzare spunti letterari precisi?

Ci siamo detti: ci sono cose bellissime in letteratura che ci piacciono, ci stimolano, perché non usarle? Abbiamo sempre denunciato nei nostri testi le fonti, anche se poi nessuno è andato a controllare. Nel caso di Céline lo abbiamo usato moltissimo, soprattutto perché ha dato nuova vita alla letteratura col suo linguaggio. Poi è un autore molto teatrale, che potrebbe essere recitato così com’è. Abbiamo imparato a scrivere da lui, imparato il suo senso della scrittura. Quindi, poco alla volta, Céline è stato meno presente nei nostri spettacoli, ma proprio perché siamo diventati noi direttamente céliniani.

Dal momento che tu, molto giustamente, stai usando il “noi” in riferimento a Sandro Luporini, autore con te di tutti gli spettacoli, è forse il caso di parlare un po’ della vostra collaborazione.

Abbiamo incominciato a far canzoni insieme nei primi anni Sessanta, per noi, per gli amici, per divertirci, perché certi brani non andavano bene per il mercato. Quando poi ho affrontato il teatro la nostra collaborazione è diventata più stretta. Luporini ha via via affinato sempre di più il suo linguaggio e sa scrivere benissimo, pur non avendo molto il senso del teatro. In fondo resta un pittore e considera il teatro come una forma secondaria d’arte. Per lui – come anche per me – vengono prima la poesia e la musica.

La parte musicale la scrivi però solo tu…

Si certo, Luporini non conosce la musica, però è un prodotto che nasce in qualche modo in comune, perché lui la condivide, mi dà dei consigli, ecco perché firmo da sempre con lui la paternità dei miei spettacoli.

Come nasce una vostra canzone?

Non ci sono regole. Qualche volta Luporini vagamente butta giù delle cose, altre volte c’è già la musica… Gli spettacoli nascono da incontri che durano molto tempo; discutiamo per molti mesi, per cui alla fine è difficile ricordarsi se una cosa l’ho scritta io oppure l’ha scritta lui.

Nella stagione 1978-79 hai messo in scena uno spettacolo abbastanza diverso dai tuoi precedenti, soprattutto per la parte musicale, curata da Franco Battiato, parlo di Polli di allevamento.

Si, facemmo un tentativo, riuscito solo in parte, di staccarci dalla musica leggera, spaziando verso un’orchestrazione più complessa. Gli arrangiamenti sono molto interessanti. Battiato è l’unico musicista che io conosca in grado di scrivere contemporaneamente tutte le parti: quella della linea melodica, quella dell’arrangiamento e quella del testo.

Ne venne fuori un album di atmosfera sinfonica e sperimentale, senza l’uso di basso e batteria.

Credo che all’interno di quel disco – che rimase un episodio isolato perché dopo ritornai verso sonorità più “leggere” – ci siano dei segni che ancora oggi mi interessano e che presto vorrei riprendere.

Polli di allevamento era ancora più radicale dal punto di vista dei contenuti. Come fu accolto dal pubblico?

Molto duramente. Infatti poi smisi per due anni di fare teatro. Dopo l’ultima canzone Quando è moda è moda, cioè alla fine dello spettacolo, succedeva di tutto: volavano insulti. Eravamo nel ’78-’79 e quella era la risposta al ’77.

All’inizio degli anni Ottanta invece sei ritornato alla carica con dischi e spettacoli come Anni affollati, Pressione bassa e Io se fossi Dio, quest’ultimo il tuo album più contestato in assoluto, anche perché sparavi a zero su tutti i partiti politici e perfino sui giornalisti.

Per l’esattezza il doppio disco dal vivo di Anni affollati racchiudeva le canzoni pubblicate in altri singoli come Pressione bassa, Io se fossi Dio e lo stesso Anni affollati. Dal Signor G a Libertà obbligatoria c’è un unico filo, il discorso sulla responsabilità individuale, sulle nostre scelte e i nostri gusti. In Polli di allevamento c’è uno stacco: mentre prima si parlava col “noi” adesso si parla con “io”. Con Anni affollati si ritorna invece al diritto all’indignazione. Quando tutti si sono buttati sull’effimero io ho cominciato a dire: no, ragazzi “non fa male credere, fa male credere male” (Non è più il momento). Nel disco si parla di questo desiderio non dico di una linea politica, per carità, ma di una linea morale. Già qui però i nostri temi diventano più difficili da esprimere teatralmente.

Hai mai avuto paura che le tue canzoni e i tuoi monologhi fossero troppo pieni di concetti, insomma timore di scrivere dei saggi più che dei brani musicali?

A volte si. Ti faccio un esempio: in Io se fossi Gaber ho affrontato il tema della massa. Del “sociale”, sotto una diversa angolazione rispetto a Libertà obbligatoria, poi mi sono accorto che era una mia idea personale, poiché stavo inseguendo dietro a Jean Baudrillard il concetto della distruzione per proliferazione: cioè il sociale si estingue in quanto prolifera senza senso. Un discorso che ho abbandonato perché diventava troppo personale in quanto non aveva una capacità espressiva, di coinvolgimento del pubblico.

In questi ultimi anni mi sembra che le tue canzoni siano diventate più intimiste e anche più ottimiste.

Indubbiamente si, qualche segno positivo c’è, le canzoni non sono più catastrofiche, però c’è sempre l’approfondimento del negativo, alla ricerca di soluzioni.

Gildo, ad esempio, contenuto in Anni affollati mi sembra un pezzo di speranza, di grande umanità…

Esatto, Gildo e Illogica allegria sono i due momenti in cui scatta una sorta di attimo vitale. Gildo nasce da questa affinità di sensazioni in un momento in cui i problemi diventano reali. Mi pare che negli ultimi tempi io e Luporini abbiamo fatto più attenzione agli attimi, alle piccole cose, al problema dell’accettazione della mortalità, del quotidiano. Ci siamo insomma occupati più del “sentire”, in Parlami d’amore Mariù si parla proprio del sentire quello che non c’è, attraverso l’invenzione sostitutiva di un’emozione reale.

E per concludere il discorso veniamo al tuo ultimo spettacolo teatrale: Il grigio.

Anche qui, attraverso una specie di favoletta, vorrei dire cose più propositive, e per esempio quando il protagonista dice che siamo soli non perché la società è cattiva ma perché non siamo capaci di dedicarci a un’altra persona, supera il lamento e il suo stato paranoico per passare ad analizzare la sua incapacità sentimentale.

Continuerai a fare teatro per altri vent’anni?

Mah, ogni volta mi sembra l’ultima, perché si fa uno spettacolo solo se ne vale la pena, se hai qualcosa di nuovo da dire, altrimenti meglio restarsene a casa.

GABER-CÉLINE

LA NAUSEA, LA FEBBRE, IL DELIRIO

Molti cantautori italiani si sono spesso ispirati a poeti e scrittori; sono stati influenzati nei versi delle loro canzoni da letture di gioventù o da scoperte letterarie più recenti: molte volte si tratta di citazioni da romanzi e poesie, altre volte di semplici allusioni, sottili rimandi. In alcuni casi poi il modello letterario è fondante ed esplicitamente dichiarato, come per L’antologia dello Spoon River di Masters che De André ha magistralmente riletto attraverso il suo Non al denaro non all’amore né al cielo.

Anche Giorgio Gaber non nasconde i suoi numerosi modelli letterari. Uomo di grande cultura, il musicista-autore-attore milanese nei suoi spettacoli teatrali, scritti con Sandro Luporini, ha spesso fatto riferimento a testi di saggisti, filosofi, romanzieri e poeti. In verità solo in un album, Polli di allevamento, dichiara nell’interno della copertina di essersi riferito ad alcuni autori, tra cui Robbe-Grillet, Leopardi, Beckett… Manca però curiosamente Sartre, dal cui racconto Erostrato Gaber ha tratto un brano intero: La pistola. E infine è citato il nome di Céline, dal quale Gaber si è limitato – ci sembra – a desumere un unico verso, seppure di quelli definitivi: “C’è una fine a tutto e non è detto che sia sempre la morte”.

Polli di allevamento, in fondo, è l’album meno céliniano di Gaber: i debiti del musicista verso il famoso scrittore francese sono ben altri. Basta scorrere la sua discografia per scoprire qua e là sorprendenti analogie con le pagine di Céline e, in particolare, con quelle del suo romanzo più celebre, Voyage au bout de la nuit, apparso nel 1932. Oltre agli episodi specifici, Gaber e Luporini hanno desunto da Céline una precisa atmosfera, la stessa univoca visione espressionistica del mondo e delle cose, un universo in disfacimento. E, infatti, le parole che ricorrono più di frequente nelle pagine di Céline come “delirio” e “sfacelo”, le ritroviamo anche nei testi di Gaber, a testimonianza di un’affinità stilistica e anche ideologica che lega i due autori.

Ma andiamo per ordine elencando solo alcune delle molteplici equivalenze tra il Voyage di Céline e gli spettacoli di Gaber, quasi tutti tradotti in album doppi dal vivo. Del 1974 è Anche per oggi non si vola, un disco che contiene canzoni prestigiose come L’odore o Il febbrosario, ed è propria quest’ultima a fornirci il primo esempio; parla infatti di un surreale luogo in cui chi ha la febbre più alta detiene più potere di tutti, incutendo timore e rispetto. Gaber e Luporini sono partiti da un semplice spunto di Céline contenuto nel Voyage (Viaggio al termine della notte, traduzione di Luigi Alessio, edizione Dall’Oglio, 1933-1982, p. 142) per imbastire un intero brano-monologo, che alterna il recitato al cantato: “Una delle distrazioni del gruppo dei salariati della Compagnia Pordurière consisteva nell’organizzare concorsi di febbre […]. Venuta la sera e la febbre, anche, quasi sempre quotidiana, ci si misurava […]. Il vincitore trionfava sotto i brividi. ‘Non posso pisciare talmente sudo!’”. “Piscio tanto che non sudo mai!” è anche il verso di Gaber proferito da uno dei malati di questo misterioso luogo. La situazione descritta nella canzone è forse ancora più paradossale e visionaria della pagina del romanzo e, oltre a Céline, non è difficile ritrovarci anche le atmosfere di un Buzzati (pensiamo a quello del racconto Sette piani del 1937), fino al tragico epilogo con il coro dei febbricitanti che grida: “Siamo murati dentro!”.

La canzone più bella dell’album resta probabilmente C’è solo la strada, ripresa in gran parte dall’episodio alle pp. 370-371, il cui il personaggio creato da Céline, Ferdinand Bardamu, eroe negativo ed alter-ego dello scrittore che ritornerà anche in altri suoi romanzi, racconta le esperienze disastrose fatte nelle dimore dove ha abitato: “Nelle case non c’è niente di buono, appena una porta si chiude dietro un uomo, egli comincia a puzzare e tutto quello che porta con sé puzza pure”. Qui la citazione di Gaber è praticamente identica, a dimostrazione che – pur nella traduzione italiana – la scrittura céliniana si presta perfettamente ad essere trasposta in lirica musicale, giusto con qualche variante per creare meglio rime e/o allitterazioni: “Nelle case non c’è niente di buono / appena una porta si chiude dietro un uomo / succede qualcosa di strano non c’è niente da fare / è fatale, quell’uomo incomincia ad ammuffire”.

La tematica è perfetta per le corde di Gaber, e lui ci costruisce una canzone-monologo ben più complessa. Céline, ancora una volta, gli serve solo come idea di partenza, poi il suo testo parla di una lenta liberazione dell’uomo, o meglio di un uomo, dalla schiavitù delle case e, conseguentemente, da un tipo di esistenza piccoloborghese che distrugge l’amore. Alla fine il modo per risolvere la situazione ed eliminare il puzzo metaforico – simile a quell’altro puzzo di cui Gaber parla ne L’odore – è di andare in un hotel meublés, lo stesso cui accenna Céline nelle sue pagine e, soprattutto, di scendere in strada ritornando alla realtà: “in mezzo alla lotta, al dolore e alle bombe” dice Gaber, alludendo a un ritorno all’impegno e alla militanza politica. Scrive Céline nel Voyage: “La razza degli uomini non è mai tranquilla e per scendere al giudizio universale, che avverrà per strada, evidentemente si è più vicini abitando in albergo. Possono venirci gli angeli con le trombe, saremo i primi noi scendendo dall’albergo”. L’inciso di Gaber-Luporini è quasi simile: “C’è solo la strada che ci può salvare / La strada è l’unica salvezza […] / Perché il giudizio universale non passa per le strade / Le strade dove noi ci nascondiamo / Bisogna ritornare nella strada / Nella strada per conoscere chi siamo”. E ancora: “In casa non si sentono le trombe / in casa ti allontani dalla vita / dalla lotta dal dolore e dalle bombe”.

C’è però un’altra canzone inclusa in Anche per oggi non si vola di ispirazione céliniana: La nave. Questa volta lo spunto è dato dal romanzo successivo dello scrittore, Mort à crédit, pubblicato nel 1936. La scena in questione è quella del viaggio sul piroscafo che il piccolo Ferdinand compie con i genitori. L’episodio, veramente disgustoso, è descritto con grande maestria dal romanziere che, già in altre parti del libro, evoca continuamente la febbre, la nausea e il vomito: “Lassù, vicino al capitano, quelli di prima e di seconda si spenzolano per vomitare, una vera cascata addosso a noi… Ad ogni ondata nelle docce si raccolgono pasti interi… siamo flagellati di minutaglie, cicciacce filamentose…” (Morte a credito, traduzione di Giorgio Caproni, edizione Oscar Mondadori, 1987, pp. 106-107). Gaber e Luporini ne approfittano per costruire una metafora sulla società, di cui la nave è appunto un simbolo: “Quelli di prima vomitano su quelli di seconda, quelli di seconda su quelli di terza” e così via, recita il parlato della canzone che interrompe di tanto in tanto la parte musicale a ritmo di swing/jazz.