Margaret (Stéphanie Blanchoud) è una che mena, e di brutto. Esplode facilmente in furie indomite perciò ha perso lavori, l’amore (il musicista e cantautore francese Benjamin Bioley), le possibilità che quel suo bel talento per la musica le avevano aperto. Ma questo lo scopriamo un po’ alla volta, nei frammenti dei suoi incontri, tra i segni del suo corpo pieno di cicatrici, sui lividi della faccia bella, ricucita da poco. E soprattutto nella lotta quotidiana che oppone alla distanza imposta dalla polizia tra lei e la sua famiglia, dopo che ha assalito la madre (Valeria Bruni Tedeschi) pianista da giovane e poi insegnante di piano, «per colpa delle figlie» ripete continuamente, spaccandole un timpano; le note per lei saranno d’ora in poi solo un suono ovattato.

NON C’È PERÒ nulla di «psicologico» nella scrittura di Ursula Meier, La ligne – La linea invisibile (era in concorso alla scorsa Berlinale) come altri film della regista e sceneggiatrice svizzera – Home. Casa dolce casa? (2008); L’enfant d’en haut (2012) – lascia allo spettatore la ricostruzione di «possibili» motivazioni, che qui riguardano quella rabbia così feroce, e l’infelicità che si porta dietro sopita tra le crepe nella storia della giovane donna: l’ infanzia punteggiata dalle frustrazioni della madre rispetto alla maternità scaricate su di lei e sulle sue sorelle come quel suo essere diva a ogni costo, i suoi uomini, il narcisismo esibito. Ma non solo.
Per Meier è soprattutto una questione di spazi – un fiume, un giardino, un parcheggio, una strada: geometrie che si modellano nei movimenti dei corpi e delle emozioni, tra distanze o avvicinamenti, in un contrappunto di esterni e interni in cui si materializzano i sentimenti. Qui è appunto la «linea» che dà il titolo al film, una striscia di vernice blu che la sorellina di Margaret, Marion, traccia intorno alla casa marcando quell’obbligo dei cento metri di separazione stabilito dalle autorità. Margaret non può oltrepassarla, ma tutti i giorni è lì a guardare quel posto a lei proibito nei prossimi tre mesi, mentre la madre rifiuta anche di parlarle, la sorella più grande incinta si concentra sulla maternità, e quella piccola, Marion appunto (la rivelazione Elli Spagnolo), la più massacrata dalla situazione, soffre implodendo la tensione tra le due donne, le bugie che dice a Margaret per non farla arrabbiare, i silenzi con la madre che non sa dei loro incontri, delle lezioni di canto che la sorella le dà sul ciglio della strada, senza mai oltrepassare quel limite. E le risate di scherno dei compagni di scuola, testimoni delle violenze, il nuovo boyfriend della madre, la solitudine di follia che avvolge quel paesaggio famigliare nella neutralità apparente di piccole case in una campagna svizzera di transito e senza un ritrovo che non sia il centro commerciale.

MEIER definisce il suo film un «western» il cui orizzonte di sfida è nel quotidiano, e in un malessere in cui risuona una contemporaneità. Cosa significa quella linea che porta in sé la costrizione di un caos interiore e insieme del presente che ha scoperto dopo i muri e i confini le regole pandemiche del distanziamento, di altre linee disegnate nei luoghi e ancora più profondamente nella nostra mente?

 

È su questo confine che la protagonista viene messa alla prova, e inevitabilmente con lei quanto fa parte del suo mondo, rispetto al quale un po’ come alle sue sorelle – la piccola devota a Dio, la grande all’idea di famiglia – manca una parola propria, una narrazione con cui trovare la distanza da sé stesse. Ma non arriva quel giorno che si smette di essere figli almeno in parte provando a raccogliere i pezzi per ricomporli in qualcos’altro? La «linea» si fa dunque romanzo di formazione, che segue questa giovane donna nelle sue domande, nell’appropriazione di una parola capace di contenere qualcosa di troppo doloroso e sepolto, di renderlo altro, di condividerlo. In una messa distanza di accadimenti e di niente nella quale trovare un nuova dimensione, l’aria per respirare. Al tempo stesso portato fuori dalle mura domestiche quel conflitto famigliare si traduce in una dimensione collettiva: la «guerra» madre/figlia è forse una metafora di altri conflitti, della dimensione di scontro senza ragioni apparenti, dell’incapacità di convivere con l’altro fuori dalla sopraffazione. Il dispositivo di Meier lavora sui millimetri – di senso e di emozioni – seguendo nevrosi e frammenti di realtà presente di questo campo di battaglia – fisico prima che verbale sin dalla prima sequenza in slow motion di rabbia violentissima quasi performativa – tutto femminile, nel quale gli uomini appaiono come di passaggio nella ricerca di uno sguardo nel quale trovare un diverso posto in quello spazio.