La Libia spartita e declassata. E noi con lei
La spartizione L’aria che tira è quella della spartizione tra Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con una riunione internazionale dopo l’altra, si va verso una sorta di “declassamento” di fatto del riconoscimento […]
La spartizione L’aria che tira è quella della spartizione tra Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con una riunione internazionale dopo l’altra, si va verso una sorta di “declassamento” di fatto del riconoscimento […]
L’aria che tira è quella della spartizione tra Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con una riunione internazionale dopo l’altra, si va verso una sorta di “declassamento” di fatto del riconoscimento dell’Onu assegnato al governo di Tripoli per aprire la strada, al massimo, a qualche labile soluzione confederale dove il nocciolo vero della questione è la divisione delle risorse petrolifere.
Per evitare l’escalation del conflitto non ci sono altre soluzioni: cosa che era già evidente nel 2011 quando il 19 marzo Francia, Gran Bretagna e Usa attaccarono Gheddafi per sostenere i ribelli di Bengasi. Tutti sapevano già allora che le divisioni tribali ma anche regionali e locali avrebbero avuto un ruolo decisivo perché lo Stato libico esisteva da 40 anni solo nella persona di Gheddafi e nella sua cerchia di potere, non in una realtà amministrativa e militare tenuta dal raìs in una condizione quanto mai labile per il timore che si costituisse qualche realtà nazionale a lui ostile. E infatti una volta che la Francia di Sarkozy – a sua volta foraggiato da Gheddafi – ha infiltrato la cerchia di potere nei mesi precedenti la rivolta lo stato libico ha cominciato a liquefarsi e non è mai più riaffiorato, preda delle divisioni interne, del radicalismo islamico e delle influenze internazionali.
Come avviene per ogni Stato “fallito” ma potenzialmente assai ricco che produce gas e petrolio gli appetiti interni ed esterni sono forti, qui come in Iraq o in Yemen. In più la vastissima Libia è un incrocio nevralgico tra Mediterraneo e Africa che fa troppo gola alle potenze coinvolte nella regione. Tutto dunque è la Libia, tranne una cosa: un porto sicuro per i migranti come hanno cercato di illudersi e illudere i nostri governi. Anche in questo abbiamo sbagliato di grosso perdendo di vista la vera partita geopolitica.
Decideranno le battaglie sul campo come quella in corso a Sirte tra il generale Khalifa Haftar, il governo di Tripoli e la città-stato di Misurata, dove ci sono oltre 300 militari italiani a guardia di un ospedale. Ma a fare la differenza saranno soprattutto i due protagonisti delle vicende mediterranee, Putin ed Erdogan, che oggi si incontrano ad Ankara a inaugurare il Turkish Stream ma a parlare anche di molto altro, dalla Libia alla Siria, alla tensione Usa-Iran. Erdogan, alleato della Nato ormai fuori controllo, ha inviato le truppe a Tripoli e mercenari jihadisti per aiutare Sarraj e i Fratelli Musulmani, Putin appoggia con i suoi mercenari Haftar, insieme a Egitto, Emirati, Arabia Saudita, con Francia e Stati Uniti che esibiscono un atteggiamento sempre assai ambiguo ma di fatto più favorevole al generale che a Tripoli. Dalla parte di Haftar, a parte Putin, ci sono i maggiori acquirenti di armi di Washington come sauditi ed emiratini, alleati tra l’altro di Usa e Israele contro l’Iran degli ayatollah.
L’Italia non sta in mezzo ma sotto. Ufficialmente è con Tripoli ma sta cercando di riposizionarsi intensificando i rapporti con Haftar incontrato da Di Maio a dicembre e che dovrebbe tornare presto a Roma. L’Italia sta sotto perché i suoi alleati occidentali hanno turlupinato il governo Berlusconi nel 2011 quando attaccarono Gheddafi e la spinsero, su decisione dell’ex presidente Napolitano, a unirsi ai raid della Nato. Sta sotto perché deve salvare capra e cavoli, in particolare l’Eni, che è ancora la maggiore azienda libica, gestisce il gasdotto Green Stream e fornisce il 70% dell’elettricità al Paese, insieme a quelle commesse che il defunto raìs ci aveva promesso (50 miliardi di euro). La Libia era la nostra torta di frutta candita ma da tempo le fette le decidono gli altri.
Un decennio fa nella tenda di Gheddafi il raìs distribuì onorificenze e medaglie a Giulio Andreotti, Lamberto Dini, all’ex ministro Giuseppe Pisanu, a Vittorio Sgarbi, al premier Berlusconi, a Frattini, Prodi e D’Alema. Aveva in pratica premiato tutta la classe dirigente della Repubblica che di lì a poco poi lo avrebbe abbandonato. L’attuale ministro degli Esteri italiano Di Maio, ieri alla riunione Ue sulla Libia a Bruxelles e oggi al Cairo con Francia Grecia e Cipro, invece deve stare attento a non fare gaffe. Così prima di incontrare il fronte pro-Haftar e anti-turco vedrà il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu.
Sulla Libia non abbiamo più nessuna leva, non piacciamo troppo ad Haftar e neppure a Sarraj che ormai parla solo con Erdogan. Per questo stiamo sotto botta: è finita da un pezzo per noi l’era dei ricchi premi e cotillons, quelli li dava solo il raìs.
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