All’alba del 17 maggio la Procura di Roma ed il Cnaipic (il centro nazionale anticrimine informatico) danno il via all’operazione «Tangodown» contro Anonymous Italia: 4 persone finiscono agli arresti domiciliari, le abitazioni di altre 6 vengono perquisite ed una grande quantità di materiale informatico è posta sotto sequestro. L’accusa del pubblico ministero Perla Lori è: associazione a delinquere virtuale, un reato che prevede pene dai tre ai sette anni di carcere. Sono molti però i dubbi che circondano l’operato degli inquirenti: dalla contestazione del reato associativo fino al ricorso alla disciplina antiterroristica nei confronti degli attivisti. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Fulvio Sarzana, giurista ed esperto di diritto dell’informazione.

Già nel 2011 il network di Anonymous Italia era stato oggetto delle attenzioni della procura di Roma e del Cnaipic. Anche allora decine di perquisizioni erano state disposte contro presunti appartenenti al movimento. C’è però un’importante differenza con il filone d’indagine odierno: agli indagati dell’operazione Tangodown è stata contestata anche l’associazione a delinquere virtuale. Cosa cambia nei fatti?

L’associazione a delinquere viene utilizzata come una pellicola coprente: quando questa si configura vengono permesse indagini sotto copertura o una serie di attività investigative (come il ricorso a tecniche di intercettazione anche per i singoli reati) che generalmente non sarebbero ammissibili. Essa comporta la possibilità di essere indagati solo per aver fatto parte di una certa associazione, indipendentemente dalle azioni di cui ci si è resi responsabili. È esattamente quanto accaduto nell’ultima operazione di polizia contro Anonymous Italia: per esempio sembrerebbe che uno dei ragazzi coinvolti amministrasse una pagina Facebook e non avesse mai preso parte agli attacchi. Ma l’associazione a delinquere virtuale ha fatto si che, pur non avendo mai partecipato a determinate azioni, venisse ricompreso nel reato.
Altrettanto singolare nell’operazione «Tangodown» è però anche il ricorso alla disciplina antiterroristica, ovvero il cosiddetto decreto Pisanu. Se si ricorre a norme di questo genere, credo che l’attività terroristica oggetto dell’attenzione degli inquirenti andrebbe in qualche modo esplicitata. E questo a prescindere dalla legittimità delle azioni di Anonymous.

Lei ha più volte sollevato forti perplessità sul ricorso da parte degli investigatori all’articolo 7bis della legge Pisanu… Qualè, secondo lei, il rapporto tra una forma di attivismo come quella di Anonymous con una norma formulata per la prevenzione e la repressione di attività terroristiche condotte con mezzi informatici?

Questa norma era stata pensata e scritta subito dopo gli attacchi terroristici di Londra del 2005. La sua finalità era reprimere specifiche attività terroristiche, come attacchi cibernetici che avrebbero potuto mettere in crisi le infrastrutture critiche italiane. Il dubbio sorge sulla norma a monte e sulla possibilità che strutture come il Cnaipic possano effettuare indagini di questo genere. Per poter ricostruire una competenza generale del Cnaipic dovremmo immaginare che i protagonisti di queste azioni siano stati mossi da finalità distruttive verso le infrastrutture critiche nazionali. Come si fa a considerare la Siae una un’«infrastruttura critica»? Ma anche se guardiamo agli attacchi contro Trenitalia, stiamo comunque parlando di siti internet, di portali vetrina, non certo di nodi fondamentali della rete italiana.

L’associazione a delinquere virtuale già in passato è stata ritenuta non configurabile dalla Cassazione. Inoltre per determinare un reato di questo tipo è richiesto di dimostrare alcuni requisti specifici, come le procedure di reclutamento o la prassi di affiliazione. Sono elementi poco compatibili con una forma di organizzazione acefala e priva di centro come quella di Anonymous. Com’è possibile allora che la procura di Roma abbia contestato il reato associativo?

È questo l’elemento più strano di tutta la vicenda. Viene ipotizzata un’associazione criminale dedita ad attività di cracking dietro compenso. E per chi? Per solo quattro persone? O anche per le altre sei perquisite? Qual’è la prova dello scopo di lucro? Vedremo i fatti d’indagine ma da quanto è apparso fino ad ora sui giornali non vedo elementi di richieste economiche. Oltretutto dagli elementi che conosciamo sembrerebbe che almeno due degli arrestati non siano stati coinvolti in attività di tipo lucrativo. Se fosse vero verrebbe anche a mancare il numero minimo di persone stabilito per configurare l’associazione a delinquere (ovvero tre). Dubito fortemente che ad una vaglio processuale tale accusa possa reggere.
Inoltre soffermiamoci per un secondo ad analizzare i connotati assunti da Anonymous a livello globale: non esistono capi, né un’organizzazione ad hoc, né una struttura verticistica. Come si può pensare di applicare contro una realtà simile un reato del genere? È come se venisse contestato il vincolo associativo a diverse persone che in diversi paesi del mondo decidessero di aderire ad un netstrike (lo sciopero in rete, n.d.r.) o ad una qualche forma di mobilitazione su Internet. È un’ipotesi non ancora contemplata dalle modalità di azione penale.
Da almeno 30 anni il nostro paese ha registrato l’emersione di un trend giuridico: le istituzioni tendono a cavalcare eventi sensazionalistici per introdurre nell’ordinamento il reato associativo. Siamo di fronte al ripetersi di uno schema simile? L’operazione «Tangodown» potrebbe essere il banco di prova per mettere a punto il reato di associazione a delinquere virtuale?
Purtroppo in Italia a partire dalla legge Reale in poi le finalità emergenziali sono state introdotte con leggi d’urgenza. Il problema è che l’urgenza passa e le leggi restano generando una stratificazione di legislazioni emergenziali prive di una disciplina codificata in senso classico. Credo che con il web stiano riproponendo lo stesso dispositivo. Anche per questo motivo la vicenda processuale di questi ragazzi dovrà essere osservata con attenzione. Consideriamo però che fino al 2008 la Cassazione aveva affermato chiaramente che non c’era la possibilità di potere inibire l’accesso ai siti internet. Altrettanto chiari erano stati i suoi pronunciamenti rispetto alla posizione dei provider: non era loro consentito di mettere in atto pratiche censorie né attraverso il blocco degli IP (l’Internet Protocol può essere equiparato a un indirizzo informatico, n.d.r.) né attraverso quello Dns (il Domain Name System è il sistema che gestisce i nomi dei domini su Internet, n.d.r.). Poi improvvisamente la giurisprudenza è cambiata e oggi in Italia abbiamo un sequestro mediante provider ogni tre giorni. Questa è una cartina al tornasole delle trasformazioni giuridiche in atto. Se si dovesse arrivare alla definizione giurisprudenziale dell’associazione a delinquere virtuale questo potrebbe significare che persone che non si conoscono e che frequentino un medesimo forum – magari ritenuto sovversivo dalle autorità – potrebbero essere considerate parte di un’associazione a delinquere pur non avendo mai avuto alcun contatto tra di loro al di fuori del web.

L’azione della polizia contro Anonymous Italia si colloca in un preciso contesto. Sul piano internazionale gli ultimi mesi hanno visto un’escalation di tensione proprio sull’ambito della cybersicurezza. All’orizzonte si profila un giro di vite contro la libertà sul web?

Da dieci anna a questa parte il web è oggetto di una campagna che raccoglie varie istanze per penalizzare il dissenso. E non solo in Italia: in questi giorni sono stati arrestati in Turchia 24 ragazzi che twittavano quanto accadeva a Gezi Park. Una legislazione emergenziale sia livello sovranazionale che locale sarebbe un danno enorme perché non riguarderebbe un ambito circoscritto ma colpirebbe l’intero mondo dell’informazione on-line, sopratutto quella libera. Il tentativo in atto è quello di rendere identificabili – e quindi assoggettabili ad un controllo – i netizen. La fine dell’anonimato sul web per le istituzioni è uno strumento per limitare attività di carattere illegale. Ma ha come risvolto la possibilità di mettere il bavaglio al dissenso in rete. Ecco perché la vera e propria battaglia in Rete si combatterà sull’anonimato. Oggetto del contendere sarà la stessa idea di libertà e la possibilità di assumere l’identità che più si preferisce (il che oggi è perfettamente legale). Dall’altra parte della barricata troveremo coloro che, a partire dall’abolizione dell’anonimato, vorrebbero introdurre un dispositivo di sorveglianza diffusa nei confronti di un medium diventato uno dei principali luoghi di socialità oltre che di informazione.