Cino Zucchi è tra gli architetti italiani contemporanei quello che mostra di tenere in più considerazione le relazioni dell’architettura con il paesaggio urbano. Il suo interesse per Luigi Caccia Dominioni, scomparso nel 2016, deriva proprio dal fatto di avere individuato nello schivo e aristocratico architetto una particolare attenzione ai valori civici espressi dalla città, in particolare Milano, e il modo come lui seppe dargli forma: fuori da schematismi, compiacimento alle mode, ricorso a stravaganti astuzie.

ZUCCHI HA DICHIARATO di avere sempre ammirato Caccia Dominioni per la sua «libertà inventiva»: la sua maniera di individuare soluzioni formali inedite ma logiche e sempre dettate dagli ostacoli e dai vincoli che pone qualsiasi progetto. Questioni legate, quindi, a regole di comportamento anziché di linguaggio, al rispetto coerente di un metodo invece che alla riconoscibilità dello stile, ma soprattutto sorrette dalla ragione che guarda a ciò che ci sta intorno: il tessuto edilizio, più o meno denso e stratificato, e la natura, sempre limitata e residua.
In occasione dell’attuale Mostra internazionale di architettura di Venezia, Zucchi ha voluto rendere omaggio a Caccia Dominioni allestendo una sala nel Padiglione Centrale ai Giardini con una mostra-installazione da lui ideata insieme a Stefano Goffi, Giulia Novati e Michele Piolini.
Il catalogo, disponibile solo ora, dal titolo Meraviglie Quotidiane (Corraini, pp.128, euro 20), oltre a ripercorrere l’opera dell’architetto milanese nel saggio di Orsina Simona Pierini, è la meticolosa ricognizione che Zucchi fa del complesso edilizio di Corso Italia, denominato dal Caccia, Ti.Ki.Vi.

ABBIAMO GIÀ SCRITTO in occasione della recensione dell’esposizione veneziana come l’allestimento dello studio milanese si inserisca nel più generale interessamento delle curatrici, Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects) verso le vicende e le figure dell’«altra» modernità, come conferma lo spazio in mostra che illustra la demolizione delle residenze londinesi di Robin Hood Gardens di Alison e Peter Smithson o il restauro del Padiglione del Canada, opera dei BBPR. Occorre premettere che Zucchi non ha nessuna ambizione di storiografo, anche se l’installazione sembra farlo credere.

NEL RIMARCARE quella «modernità gentile» fatta di «buone maniere» distanti dall’ortodossia funzionalista che compongono non solo la cifra stilistica di Caccia Dominioni ma anche di ben più allineati architetti come Piero Bottoni o Luigi Moretti, Zucchi ha voluto evidenziare quanta di quella buona pratica e razioni di sensibilità siano urgenti per Milano. Una città che sappiamo ormai segnata dal cinico distacco di «sviluppatori» capaci d’imporre i loro modelli insediativi e tipologici che spesso sono volgari caricature catapultate da altri paesi e continenti.
Il complesso di Corso Italia (1957-1964) è lì a dimostrare che c’è stato un tempo, non così lontano, nel quale gli eventi urbani erano intesi in un altro modo. Per segnalarne l’importanza, più di quanto la critica non abbia fatto, ecco quel pezzo di città illustrato con cura dentro un padiglione ben disegnato e che ha con gli spazi di Caccia Dominioni una certa «aria di famiglia». A denotarne le qualità sono la sua elegante forma cupolata, l’irregolarità poligonale della pianta, la selezione dei colori.

Fuori dell’«oggetto misterioso» una serie di supporti metallici elencano gli altri edifici dell’architetto milanese identificabili tutti in un grande plastico. Fotografie, disegni e bozzetti (in particolare quelli dello scultore Francesco Somaini autore del disegno del pavimento dell’atrio) spiegano la complessa articolazione del complesso edilizio: un fronte basso destinato a funzione-uffici stretto tra due «snelle torrette» e il volume principale (residenziale) che si pone dietro rispetto il fronte stradale, ancora più in profondità nel lotto il cortile verde dove sul lato sud si erge un edificio alto dall’irregolare pianta pentagonale: «trapianto di estrema modernità dentro un ambiente che evoca i caratteri stratificati dell’edilizia storica».
Dobbiamo essere grati a Cino Zucchi di avere proposto una lettura così accurata e sensibile di una delle opere più discrete di Caccia Dominioni e forse per questo meno indagate.

TUTTAVIA, tra «forme inventate» o giunte a noi dalla tradizione, tra combinazioni di tecniche, materiali e colori, per ottenere risultati ora dissonanti ora armonici, l’architetto milanese ha sempre voluto dimostrare quanto semplice e accogliente è la città che ci ospita. È sufficiente conoscerne la natura e la storia: un principio che Zucchi con semplicità ha voluto riaffermare.