Lasciamo volentieri alle chiacchiere dei «dirigenti» del nostrano partito democratico l’interpretazione dei risultati dei socialdemocratici tedeschi. Le riflessioni sulla sconfitta dovuta alla «separazione tra ruolo di candidato premier e segretario del partito» dicono tutto del livello desolante del «dibattito» all’interno della principale forza politica italiana: la profondità di pensiero è a misura di tweet.
Meglio cercare di capire quale indicazione si può trarre per tutto ciò che sta a sinistra del Pd dalla più che dignitosa performance della Linke, analoga al massimo risultato storico di Rifondazione nel 1996. Un’era geologica fa, da cui ci separano una serie interminabile di scissioni e sconfitte.
Disavventure che sono tutt’altro che un’esclusiva della sinistra italiana: batoste e divisioni non conoscono confini.
Eppure – qui sta il primo insegnamento – alle avversità la Linke ha reagito in modo diverso: giunte al punto di rottura le divergenze fra radicali e «riformisti», al congresso di Gottinga dello scorso anno prevalse la saggezza di quanti capirono che divisi si perde. Non si cercò una resa dei conti, ma il modo di continuare insieme nonostante le differenze, anche molto grandi: e lo si trovò eleggendo due figure dialoganti e inclusive al vertice del partito.
L’oggetto del contendere era, manco a farlo apposta, il rapporto con le altre forze di (centro-)sinistra. Detto altrimenti: si deve provare a governare in coalizione oppure no? In Italia – non serve neppure ricordarlo – a questo dilemma, anche nell’attuale crisi del governo Letta, si riduce quasi sempre tutto il confronto a sinistra, fra «alleanzisti» ad oltranza e fautori dell’opposizione sempre e comunque.
Sarà forse perché la Germania ha partorito la dialettica hegelo-marxiana, ma la Linke appare attrezzata a cogliere la complessità del problema. La cui soluzione, forse, senza troppi giri di parole, è riconducibile ad un ragionevole e persino banale: dipende. Dai contenuti programmatici, dai rapporti di forza, dal contesto.
Quel che è certo, è che il partito nato meno di dieci anni fa dalla fusione dell’organizzazione erede della Sed e di un gruppo di socialdemocratici dissidenti non definisce la propria ragione d’essere sulla base della partecipazione o meno a un governo con la Spd e i Verdi. Esiste a prescindere, perché è convinto di avere, in ogni caso, un ruolo autonomo nella politica della Repubblica federale. Senza escludere né una strada, né l’altra.
I tedeschi avranno pure la dialettica, ma noi dovremmo almeno un po’ masticare il nostro Gramsci. La cui lezione, invece, abbiamo ampiamente dimenticato, a differenza di quanto avviene nella Linke. I cui dirigenti, di qualunque corrente siano, sanno che una guerra di posizione non la si vince dall’oggi al domani, e che serve conquistare spazio e consolidare consenso nella società. Casamatta dopo casamatta. Guarda caso, la Fondazione Rosa Luxemburg, il think tank del partito, ha organizzato un ciclo di letture dei Quaderni dal carcere. Le iscrizioni sono aperte.