Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, viaggiano in coppia e raccontano ormai da qualche anno il Belpaese con uno sguardo prevalentemente etnogastronomico. All’inizio sono state due regioni, le Marche e l’Abruzzo, questa volta tre città di mare, con il doppio passo e il doppio sguardo dei flâneur. Come i veri forestieri non hanno una meta precisa, la loro prerogativa principale è perdersi per capire l’anima dei luoghi. Città nascoste (Exòrma, pp.192, euro 15,50) questo è il titolo della loro nuova avventura, è un libro di viaggi nel senso più autentico, come avverte Alessandro Leogrande che firma l’introduzione, quindi anche diaristico, fatto di incontri incidentali, ma anche deragliamenti e improvvise scoperte, mete volontarie, soste che prolungano il tempo.

La narrazione fatta di micro-reportage tutti contrassegnati da un titolo è in presa diretta, registra il vissuto qui e ora, nell’alternanza dei diversi caratteri tipografici che distinguono i due autori; ne esalta l’altera corporalità, un gesto parossistico nel tempo in cui l’esperienza dei sensi si sta sostituendo con quella digitale, forse anche un atto di ribellione, visto che gli autori scartano per scelta l’alta velocità per mantenere una postura ad altezza d’uomo, spostandosi su ferrovie locali, corriere, biciclette e, naturalmente, a piedi.

Trieste, «la città del vento» (come la definisce uno dei suoi figli, Mauro Covacich), è inafferrabile e caleidoscopica, una specie di eccentrica matrioska, con tutti i suoi sedimentati storici e paesaggistici, più che nascosta imbozzolata dentro il suo glorioso passato. I due terranauti, così si definiscono gli autori, fanno una vivisezione dello sguardo, scomodano fantasmi del passato (James Joyce, per esempio, col quale dialogano mentalmente), ne toccano i nervi più scoperti come se la città fosse un corpo di storie e di strade, scoprono odori e sapori, bevendo vino come il Terrano, il «sangue del Carso», la Vitovska del vignaiolo Sandi Skerk, mangiando nelle taverne accoglienti baccalà o granceola, sorseggiando il «nero» nei tanti caffè, un po’ ai modi di un altro viaggiatore, Paolo Rumiz, che non incontrano ma che a un certo punto si fa vivo al telefono, segno di una vicinanza d’intenti.

A Livorno l’arrivo è sempre con lentezza col regionale che parte da Roma. All’antica torteria «Al mercato Da Gagarin» mangiano il 5 e 5 più tradizionale, la torta fatta con acqua sale, olio di arachidi e farina di ceci, ma il colpo grosso è la «caciuccata» da Gigi, una vera e propria orgia gastronomica, mentre inseguono la libreria indipendente Belforte (la cosa accade anche nelle altre due città) e finiscono naturalmente al cimitero a visitare la tomba del cantante più anarchico e ribelle di tutti, Piero Ciampi.
Tre città la cui vera matrice viene dal mare nascoste in un passato che stenta a diventare futuro, unite intanto dalle gastronomie a base di pesce, dalla crisi dei porti e le macerie dell’attività industriale e dei suoi veleni, dove in virtù di questo loro presunto ritardo restituiscono il fascino di un’Italia remota di cui resta un conio più forte.

Ma un’altra chiave di questo libro è andare incontro al racconto di chi sta cercando di arrestare il declino, siano essi appunto ristoratori, nuovi viticultori, la manifattura Lister a Trieste, nata dall’esperienza basagliana, dove lavorano ex psichiatrici, rifugiati politici, disoccupati colpiti dalla crisi, Silvia Menicagli che ha un progetto per trasformare le Terme del Corallo a Livorno, la ripresa dell’allevamento delle cozze a Taranto, però minoritari rispetto alle desertificazioni produttive, il malaffare che anche in queste città sembra colpire inesorabilmente il corpo sociale. Senza voler vedere – se non marginalmente – le rovine del passato, i danni dello sviluppo. Perché ogni viaggiatore ha una sua visione, sceglie deliberatamente il suo itinerario, fa delle scelte, ogni vero viaggiatore che parte «rischia di arrivare», come ammonisce Manganelli nella citazione posta in esergo, lo stesso che si chiedeva se Ascoli Piceno esistesse veramente, perché ognuno di noi inventa i luoghi, e li scrive, come in questo godibile triplo viaggio.
All’autore scettico de La tavola pitagorica potrebbe rispondere Caproni, rilanciando, con questi versi incisi in un solfeggio esatto: «Tutti i luoghi che ho visto, / che ho visitato, / ora so – ne son certo: / non ci sono mai stato».