Il 20 maggio è la Giornata nazionale della biodiversità di interesse agricolo. Data inserita all’interno della legge 194 approvata dal Parlamento il primo dicembre del 2015 che ha istituito un sistema nazionale di tutela e di valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare, finalizzato alla tutela delle risorse genetiche locali dal rischio di estinzione e di erosione genetica. L’evento arriva due giorni prima della Giornata mondiale della biodiversità, il 22 maggio, proclamata dall’Onu del 2000. «In Italia la diversità del patrimonio di varietà vegetali e razze animali, che era alla base della nostra agricoltura, è a rischio a causa dell’uniformizzazione dei sistemi agricoli legata alla modernizzazione dell’agricoltura. I nostri campi non coltivano e producono più biodiversità», afferma Riccardo Bocci, direttore tecnico di Rete Semi Rurali (semirurali.net) che ha collaborato con il ministero dell’Agricoltura per la redazione delle linee guida per la conservazione della biodiversità agricola.

Bocci, la legge 194/2015 va quindi nella giusta direzione. A sette anni dall’emanazione che bilancio si può fare?

L’idea della legge era quella di creare un sistema di gestione della biodiversità agricola tra Regioni e ministero, ma il bilancio di questi sette anni è sostanzialmente negativo perché ha aumentato il livello di burocrazia in tutto il settore della conservazione dell’agrobiodiversità. Tutto l’impianto legislativo della 194, infatti, è poco snello e manca di cogliere l’opportunità di supportare il lavoro della società civile e degli agricoltori sull’agrobiodiversità. Al contrario, le istituzioni – Regioni e Ministero – diventano i soggetti attraverso cui tutto deve passare, soffocando lo spazio di autonomia legato agli attori che stanno in campo.

Quali parti importanti non sono ancora state concretizzate?

Tante parti della legge sono in corso di implementazione, ma soprattutto sarà difficile rendere operativa la Rete degli agricoltori custodi che dovrebbe essere gestita dal Masaf (Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste). In modo del tutto inappropriato, infatti, la legge istituisce una rete tra questi agricoltori rendendo istituzionale qualcosa che sarebbe dovuto restare sotto il controllo della società civile. È un controsenso creare per legge nazionale una rete tra persone che invece è frutto di rapporti personali, conoscenze, pratiche che servono per creare la fiducia tra chi ne fa parte. Già le Regioni, quelle che si sono dotate di una legge sull’agrobiodiversità, fanno fatica a gestire le loro reti e, quindi, invece di riflettere sulle difficoltà che hanno, prevedendo il riconoscimento di quanto già esiste fuori dalle istituzioni, hanno preferito passare il problema al Ministero.

Nel caso degli agricoltori custodi una obiezione è che in pratica per la legge si tratta di contadini pagati e controllati da vari enti per conservare le razze animali e le varietà vegetali e non per un loro sviluppo. Lei cosa ne pensa?

Il ruolo e la figura dell’agricoltore custode previsti dalla legge rispecchiano una visione museale e burocratica della biodiversità e dell’agricoltura, senza spazio per l’innovazione e la creatività. La biodiversità si è evoluta nel tempo proprio in condizioni diverse. Questo approccio perde di vista l’importanza del cambiamento nei sistemi agricoli e immagina di poter musealizzare alcune realtà di nicchia dove oggi si trova la biodiversità residua, scomparsa dal resto dei sistemi agrari. È un modello che funziona solo a fini turistici o di marketing, ma che manca di cogliere l’essenza del problema: perché non c’è più biodiversità nei nostri sistemi agrari? Come fare per riportarcela?

E poi, perché un agricoltore dovrebbe farsi carico di questo ruolo?

Bella domanda. La speranza di avere un piccolo sostegno economico è senz’altro una motivazione, unita al fatto di avere un riconoscimento pubblico per aver fatto qualcosa che non veniva considerato. Alla fine, però, questo gioco che lega gli agricoltori custodi ai contributi della Pac (Politica agricola comune) attraverso le Regioni non è detto che valga la pena di giocarlo. Infatti, in molti casi il sistema di controllo legato ai contributi costa di più del contributo stesso. Insomma, si dice di dare i soldi agli agricoltori, ma, invece, vanno alla macchina burocratica che sta dietro al sistema.

La legge prevede anche il diritto di scambio delle sementi solo all’interno della Rete nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare. E’ un limite?

Sì. L’articolo della legge che si occupa dello scambio fa un doppio errore. Prima considera questa pratica disciplinata dalla normativa sementiera e poi la legittima solo all’interno della Rete. In realtà tutte le pratiche di scambio realizzate in determinati modi non ricadono nella normativa sementiera, sono pertanto legittimi senza aderire a nessuna Rete nazionale. Per esempio, come Rete Semi Rurali sono anni che gestiamo delle campagne di semina basate sulla cessione di sementi per fini di ricerca e conservazione, senza nessun problema. Se l’articolo 11 della legge 194/2015 fosse attuato correttamente comporterebbe una riduzione del diritto allo scambio delle sementi perché limitato solo a chi fa parte della Rete di conservazione e sicurezza, articolo 4, che ancora non c’è e quindi sarebbe di fatto illegale. Cosa che nei fatti non è.

Un cittadino che ha a cuore la difesa della biodiversità come può interagire con questa legge?

Il modo con cui i cittadini possono interagire con la legge è attraverso le Comunità del cibo, citate all’articolo art.13, facendone parte o creandole. Anche in questo caso, però, dobbiamo rilevare una misura che forza e istituzionalizza quanto nasce come spazio sociale locale. Cioè, per avere soldi dalle Regioni bisogna che realtà e associazioni che già prima operavano diventino Comunità del cibo, andando a uniformare la diversità culturale esistente.

Che cosa sono le «Comunità del cibo»?

Sono un nuovo tipo di associazione locale istituito dall’art. 13 della legge 194, basata su accordi tra «agricoltori locali, agricoltori e allevatori custodi, gruppi di acquisto solidale, istituti scolastici e universitari, centri di ricerca, associazioni per la tutela della qualità della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, mense scolastiche, ospedali, esercizi di ristorazione, esercizi commerciali, piccole e medie imprese artigiane di trasformazione agraria e alimentare, nonché enti pubblici». Queste strutture si vanno ad aggiungere alle altre di pianificazione territoriale già esistenti come i distretti rurali, quelli del cibo e i distretti biologici. A fronte di una crisi della partecipazione da parte della società civile, stiamo assistendo a una proliferazione istituzionale di nuovi istituti che rischiano di restare scatole vuote.

Come vede il futuro della biodiversità agricola in Italia?

Ho una visione un po’ pessimistica, perché se da un lato il tema è più seguito dal grande pubblico rispetto a una decina di anni fa, dall’altro stiamo assistendo a una deriva commerciale legata all’ingresso dell’agroindustria nel mondo dell’agrobiodiversità. Mi spiego, trovare al supermercato un pane in cassetta fatto con la famosa varietà Senatore Cappelli, ma coltivata in montagna, ci racconta la perdita di senso cui stiamo assistendo. Il Cappelli, infatti, è un frumento duro che vuole il sole e non sopporta ristagni idrici o troppa umidità, prodotto e pensato per l’agricoltura pugliese. Coltivarlo sull’appennino per poter avere un pane perfetto per il consumatore vuol dire fare di queste varietà dei feticci commerciali, scollegandole dai sistemi agrari per i quali erano stati pensati.