Ad appena 66 anni dal varo della prima legge repubblicana sulla diffamazione a mezzo stampa, arriva la nuova normativa. Sarà approvata oggi in via definitiva dal Senato, certamente con i voti contrari di Sel a sinistra e del Gal a destra. C’è voluta appena una decina d’anni perché la legge completasse il suo arrancante iter, giusto per dare un’idea di quanto delicata sia la faccenda. Il risultato è deludente, a tratti persino sconcertante. E’ vero, la nuova legge cancella la detenzione per i giornalisti condannati per diffamazione, e proprio così è stata infatti sbandierata dalla maggioranza e dal governo. Dal punto di vista simbolico è un risultato certamente positivo. Però quasi solo su quel piano, essendo in realtà poco frequente, anzi rarissimo, che i giornalisti finiscano in galera.

Molto più temibili, soprattutto per l’esercito di giornalisti precari o free-lance, le sanzioni pecuniarie che invece nella nuova legge abbondano. Multa tutt’altro che economica: 10mila euro, che lievitano fino a 50mila qualora la diffamazione consista nel riportare, con fredda consapevolezza e dunque con dolo, un fatto falso. La sanzione, sia pur diminuita di un terzo, vale anche per direttore e vicedirettore responsabile, anche nel caso di articolo anonimo. Alla multa si somma il risarcimento patrimoniale del danno. La cifra è a discrezione del giudice. La richiesta di fissare un tetto è stata accolta, quella di commisurare la cifra alle possibilità economiche del giornalista no. Il tetto massimo è pertanto alto, sui 15mila euro, proibitivo per la stragrande maggioranza dei giornalisti.

Ancora più discutibile la nuova regolamentazione del diritto di replica. Deve essere tempestiva, pochi giorni, e avere lo stesso risalto dell’articolo diffamatorio: sin qui nulla da eccepire. La legge proibisce però al giornalista di aggiungere commenti o controrepliche, magari per provare la fondatezza di quanto scritto e poi «rettificato». La giustificazione della relatrice Rosanna Filippin, Pd, è che in questo modo la rettifica chiude il caso. Resta oscuro perché i legislatori non abbiano lasciato al giornalista la scelta tra pubblicare la rettifica sic et simpliciter oppure, se convinto di avere prove valide a sostegno delle sue affermazioni, controreplicare affidando poi al magistrato il verdetto finale.

Dove però la rettifica diventa apertamente censoria è nelle disposizioni per le testate web regolarmente registrate (i blog per ora sono salvi, ma un po’ tutti, a partire dalla relatrice, hanno assicurato che è solo un rinvio perché bisogna arrivare rapidamente a disciplinare, pardon regolamentare l’intera rete). La rettifica deve essere pubblicata nel giro di poche ore e il presunto diffamato, in nome delle norme sul «diritto all’oblio», ha il diritto di chiedere che le affermazioni incriminate siano cancellate dai siti e dai motori di ricerca. Insomma è il sedicente diffamato, non un giudice a decidere se alcune affermazioni debbano essere considerate diffamatorie e cancellate anche dalla memoria.

In extremis, ieri, l’aula ha parzialmente corretto una delle peggiori falle della norma: il testo uscito dalla Camera e poi dalla commissione Giustizia puniva infatti con multe ridicole le cosiddette «querele temerarie», quelle che vengono sporte, con richieste di risarcimenti stratosferici al solo scopo di tenere i giornalisti sotto scacco. Caso di scuola: la querela con richiesta di 25 milioni di euro per danno d’immagine sporta dall’Eni ai danni di Milena Gabanelli. Ora invece chi querela temerariamente potrà essere condannato a un risarcimento reale. Rispetto alla formulazione originaria dell’emendamento, presentato dal Pd Casson, è una formula di mediazione: lì infatti il risarcimento era d’obbligo e pari a un decimo della somma richiesta. «Ci si ferma a metà strada per paura di non si sa cosa», ha commentato Casson.

Nel complesso, la legge che sarà varata oggi è peggiore di quella che sostituisce. Se poi la si coniuga con l’introduzione della assurda fattispecie di reato di «depistaggio», già introdotta, e con la regolamentazione del web, per ora solo minacciata ma probabilmente imminente, per la libertà di stampa si configura un quadro tutt’altro che rassicurante.