Il mondo non se n’è accorto eppure negli ultimi giorni ci sono stati movimenti di rilievo intorno al tentativo di John Kerry rilanciare la trattativa israelo-palestinese. Sotto la pressione del Segretario di stato americano, la Lega araba a trazione qatariota ha annunciato che un possibile accordo tra israeliani e palestinesi potrà prevedere limitati scambi territoriali tra le due parti. E’ una svolta significativa, che modifica il piano di pace arabo (approvato al vertice di Beirut del 2002), accogliendo di fatto una posizione espressa per anni da Israele: una soluzione definitiva non può prescindere da «aggiustamenti territoriali» lungo le linee del 1967, anno dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. E’ nota, ad esempio, l’intenzione israeliana di mantenere il controllo di tutta Gerusalemme, inclusa la zona araba (Est), in cambio di territori, si dice, del deserto del Neghev. Ben più insidioso è il desiderio di diverse forze politiche israeliane, rappresentante anche nel governo Netanyahu, di “cedere” porzioni di territorio densamente popolate da palestinesi con cittadinanza israeliana, come il “Triangolo” alle porte della Galilea, in cambio di porzioni della Cisgiordania con le maggiori concentrazioni di colonie ebraiche (illegali secondo la legge internazionale).

Anche nella sua formula originale il piano del 2002 prevede una offerta molto allettante per Israele: i Paesi della Lega araba si impegnano a firmare una pace totale in cambio del ritiro dello Stato di Israele dai Territori occupati. Una proposta da cogliere al volo per uno Paese che ripete da 65 anni di «essere assediato». Israele però non ha mai replicato con una sua controproposta e per 11 anni si è limitato ad affermare che questo scambio secco non può essere il punto di partenza della trattativa. Ugualmente freddo è Benyamin Netanyahu di fronte alla «svolta» della Lega araba. Mettendo a tacere i commenti cautamente favorevoli fatti dal presidente Peres, dal ministro della giustizia (con delega ai negoziati) Tzipi Livni e dall’ex premier Ehud Olmert, adesso il primo ministro afferma che il conflitto «non è territoriale» bensì centrato su un necessario riconoscimento da parte palestinese di Israele come “Stato del popolo ebraico”. Una mossa strategica volta a dare una nuova rotta, un nuovo indirizzo al segretario di stato Kerry, preso di mira dai commentatori della destra israeliana che gli rimproverano di dare «troppo peso» alle iniziative diplomatiche arabe.

Il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico non è stato richiesto a Egitto e Giordania quando furono firmati gli accordi di pace. Netanyahu lo pone come condizione irrinunciabile ai palestinesi – che hanno già formalmente affermato l’esistenza dello Stato di Israele nel 1993 – sapendo che per Abu Mazen o qualsiasi un altro leader dell’Anp, anche il più moderato, sarebbe impresa difficile procedere a questo riconoscimento con non poche incognite. Israele, temono i palestinesi, in seguito potrebbe procedere a un “transfer legalizzato” di popolazione araba israeliana verso la Cisgiordania e sentirsi autorizzato a negare per sempre il diritto al ritorno per i profughi della guerra del 1948.

A complicare le cose c’è anche il “referendum”. Israele pensa di sottoporre eventuali accordi definitivi con i palestinesi ad un referendum. «Se arriveremo ad accordi di pace con i Palestinesi potrei essere interessato a sottoporli ad un referendum: un tema in cui voi avete grande esperienza», ha detto il primo ministro israeliano. Referendum  privo di legalità internazionale: gli occupanti voterebbero, tra di loro, per decidere sul diritto del popolo che occupano da 46 anni, i palestinesi, di essere finalmente libero in un suo Stato indipendente. Stato che, sia pure come osservatore, è già rappresentato all’Onu. Con motivazioni diverse è contro il referendum anche Tzipi Livni. «Il mandato da noi ricevuto dagli elettori il giorno del voto alle politiche è più che sufficiente» per approvare un accordo con i palestinesi, ha spiegato.