Le lavandaie, ovvero le gerenti delle lavanderie (le metto al femminile perché sono quasi sempre donne), oltre a salvarci un pezzo di vita perché puliscono e stirano al posto nostro ciò che noi indossiamo, vedono passare sotto i loro occhi la parte più intima delle esistenze. Colletti lerci, maniche sudoranti, orli insozzati, patacche di unto, tende impregnate di fumo, sbrodolature di gelato, macchie di rossetto e cosmetici vari, i loro occhi e nasi passano in rassegna le nostre abitudini quotidiane e i relativi olezzi, il tutto peggiorato da tessuti che una volta non esistevano e su alcuni dei quali devono indagare, per capire come vanno trattati, neanche fossero Monsieur Poirot.
La mia lavandaia preferita si chiama Giusi e le costruirei un monumento perché sa pulire con professionalità sia il ricercato abito vintage con applicazione di perline cucite a mano, sia la giacca futuribile che vai a capire di che fibra è composta. Non a caso, in negozio ha sempre una sfilata di abiti da sposa e da sera così arzigogolati che solo al pensiero di stirarli viene lo sconforto. L’altro giorno entro e vedo appesa una magnifica cappa da uomo bianca con cappuccio, lunga fino ai piedi, bordata di applicazioni a fiori sui toni del rosso. «Ah Giusi – le dico – vedo che ora tratta anche i preti».

«EH NO – fa lei – questo non è un prete, ma un signore un po’ particolare». «Curioso – replico io – e quando la indossa?». «E chi lo sa?», risponde lei. «Secondo me la usa per feste o orge in salotto», butto lì io. Siccome la Giusi è una donna di spirito, invece di arrossire mi guarda come illuminata da un pensiero stupendo e mi dice: «Ma lo sa che forse ha ragione. La prossima volta che me la portano guarderò meglio il tipo di macchie».
Stavo per chiederle come fa a risalire all’origine organolettica di certe chiazze, quando la Giusi aggiunge: «Comunque, pulire questa è un piacere, mica come quella volta che mi è capitato un mantello dei cavalieri di Malta». «Davvero? Mi dica, mi dica».
«Beh, non sa come sono stata male. C’era tutto questo nero di fuori e la fodera viola, e quell’enorme croce bianca su un lato, e quel cappuccio pure foderato di viola, e poi il gancio di metallo che teneva chiusa la cappa sul collo…Io sono molto credente, ma quella mi ha fatto un’impressione tremenda. La toccavo e mi venivano addosso certe cose proprio brutte, come delle energie negative. In trent’anni che faccio questo mestiere, non mi era mai capitata una cosa così. Eh sì che di robe strane ne vedo».

«PER ESEMPIO?». «La gente nelle tasche dei vestiti si dimentica di tutto. Ho trovato chiavi di casa, occhiali, monete, carte di credito e d’identità e persino l’antifurto di un’auto che dopo il lavaggio non serviva più a niente, è ovvio. Insomma, sono cose che se le perdi ti creano un sacco di problemi, e invece i clienti non le vengono nemmeno a cercare, non gli passa proprio per la testa che possono averle lasciate nelle tasche». Chissà che cosa significano queste smemoratezze. Semplice distrazione, noncuranza perché si vive nell’abbondanza, inconscio desiderio di buttare una parte della propria vita o transfert sulla lavandaia che viene vissuta come una mamma accudente?
Il pensiero mi torna al mantello del cavaliere di Malta. L’ordine, che ha un proprio ordinamento giuridico, rilascia passaporti, emette francobolli, batte moneta e quindi ha un certo potere, oggi si professa dedito ad attività assistenziali, spirituali e di mediazione fra gli Stati. Encomiabile. Chissà che segreti celava e cosa ha visto quella cappa che ha così tanto turbato la sensibile lavandaia Giusi.

mariangela.mianiti@gmail