Che evento quel Pesaro 1967, quando i festival erano delle vere feste e Jonas Mekas, invitato da Lino Miccichè e Bruno Torri, ha fatto vedere in una sala stracolma del Teatro Sperimentale (o era ancora il Teatro Rossini?) una sua ampia selezione di film del New American Cinema! Per me evento lo è stato in ogni caso. Di più, mi ha cambiato il modo di vedere il cinema, e forse un po’ anche la vita, preparandomi fra l’altro al ’68. Lì l’ho incontrato, ma non credo di averci parlato. Qualche giorno dopo è venuto a Roma e ha mostrato altri film, fra cui il monumentale The Art of Vision (1965) di Stan Brakhage. Capolavoro. Lì ho avuto modo di parlargli un po’. Ma dovevo ancora digerire lo shock di quel cinema così diverso da tutto ciò che avevo visto e amato fino a quel momento, compresa l’avanguardia degli anni ’20, che non avevo (e non ho) mai veramente fatto mia.

DA ALLORA l’underground statunitense è diventato per me pane quotidiano. Mi sono messo a risfogliare le pagine di «Film Culture», la rivista diretta da Jonas a cui mi ero abbonato molto prima ma che non avevo mai davvero letto attentamente. E nel 1970, illuminato anche da Expanded Cinema di Gene Youngblood, sono andato per la seconda volta a New York e ho frequentato quotidianamente l’Anthology Film Archives, la sala – davvero oscura – che proiettava solo film selezionatissimi e per la maggior parte d’avanguardia. Ho incontrato di nuovo Jonas e l’ho anche intervistato per una rivista inglese, mi pare «Framework», ma non ho mai verificato se quell’intervista è stata pubblicata.

I ricordi si confondono. Quando Jonas mi ha invitato a pranzo a casa sua? Quando mi ha fatto incontrare altri esponenti dell’avanguardia? Non importa, i ricordi della mia esperienza underground – esperienza di vita, non solo di cinema – li ho raccontati anni fa (consultando le mie agendine d’epoca per essere sicuro delle date) in un saggio, Girando underground, che, chi volesse, può leggersi nel mio blog .

Jonas è stato la mia guida, il mio Virgilio, il traghettatore (passeur avrebbe detto Serge Daney) che mi ha permesso di varcare la soglia di quel «paradiso» che è, tuttora, il cinema fuorinorma, quello che ci libera dall’intossicazione di troppo cinema che guarda al passato e non al futuro, nostalgico del bel tempo che fu e incapace di inventare quando, con le nuove tecnologie impiegate bene, in maniera soft e non hard come Netflix, l’orizzonte che si presenta davanti a noi è amplissimo.
Jonas è stato autore di grande valore (He Stands in a Desert Counting the Seconds of His Life, 1985, per tutti), critico militante e organizzatore culturale (anche poeta, ma questo aspetto lo conosco male).

Ha attraversato il cinema, il suo cinema, a 360°, aiutando generosamente artisti che ne avevano bisogno e che non godevano dei privilegi dei loro simili nell’attiguo, ma per certi versi distantissimo, mondo dell’arte contemporanea, con le sue gallerie e i suoi musei e il suo denaro. L’underground è stato regalmente povero, e Jonas era il primo a essere regalmente povero, ma ricchissimo spiritualmente, il che conta molto di più.

NEL 1986 Gianni Rondolino, direttore del Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino, mi ha invitato a curare una retrospettiva e un libro su quel cinema (New American Cinema. Il cinema indipendente americano degli anni Sessanta). Sono andato di nuovo a New York, ho visto altri film che non conoscevo, ho raccolto documentazione. Jonas era un po’ scettico sull’impresa. Anche io lo ero. A tanti anni di distanza dal periodo aureo, una nuova generazione come avrebbe accolto quei film? Sono venuti a Torino diversi filmmakers e, con mia sorpresa, e anche con quella di Jonas che non venne ma a cui ho riferito, il risultato è andato al di là di ogni aspettativa: quel cinema era ancora vivo e vitale. Non avevo fatto una retrospettiva ma una prospettiva.

L’ultima volta che ho visto Jonas è stato a Lucca, già molto vecchio ma arzillo. Come mai era a Lucca, a un minuscolo festival sconosciuto anche in Italia? Semplicemente perché dei giovani intraprendenti lo avevano invitato e lui, per cui «piccolo è bello», aveva accettato. E Cannes? E Venezia? Forse non avrebbe accolto un invito che comunque non è mai venuto, che io sappia. Ho fatto da intervistatore e traduttore quando ha parlato per presentare non mi ricordo che cosa. Mi ha fatto un rimprovero: quello di aver usato il termine «cinema sperimentale». Aveva ragione, perché dire sperimentare presuppone che il risultato sia ancora di là da venire, mentre quel cinema che lui difendeva, e che io continuo a difendere – anche se continuo a usare il termine tanto per farmi capire – ha già raggiunto il suo traguardo.

Nel 1995, quando si celebrava il centenario del cinema in tutto il mondo, Jonas ha pubblicato, in salutare polemica, e proprio in forma di poster, il suo Anti-100 Years of Cinema Manifesto («Point d’Ironie», n. 1, Parigi 1996): «In tempi di produzioni opulente, spettacolari, da 100 milioni di dollari, voglio prendere la parola in favore dei piccoli, invisibili atti dello spirito umano, così tenui, così piccoli, che quando vengono esposti ai proiettori muoiono. Voglio celebrare le forme del cinema piccole, le forme liriche, la poesia, l’acquerello, lo studio, lo schizzo, la cartolina, l’arabesco, il sonetto, la bagattella e le canzoncine in 8mm».

ANCHE IO, che mi sento in certi momenti un piccolo Jonas (sono più giovane di lui di 18 anni), e che comunque seguo la sua lezione, cerco di fare per il nostro cinema italiano «invisibile» ma tanto più bello e inventivo di quello che aspira ai tappeti rossi o che concorre ai David, ciò che ha fatto lui per rendere visibile in tutto il mondo ciò che per sua natura era destinato a restare marginale.
Exit Jonas, intrat Jonas!