Louis Adamic, nato Alojz Adamic in Slovenia nel 1898, aveva l’occhio e la penna del grande giornalista, il cuore incandescente del militante operaio e la testa fredda dell’acuto analista politica. Era sbarcato a Ellis Island nel 1913 e prima di imporsi come scrittore di successo, all’inizio degli anni 30, aveva fatto un po’ di tutto. Era stato operaio e giornalista, vagabondo e soldato in Europa nella Prima guerra mondiale. Il suo primo libro lo cominciò nella seconda metà degli anni ’20, quando lavorava al porto di Los Angeles. Terminò la prima edizione nel 1930 e la seconda nel 1934, già da scrittore affermato.

È Dynamite. The Story of Class Violence in America, apparso per la prima volta in italiano nel 1977 e ripubblicato ora in edizione integrale col titolo Dyamite. Storie di violenza di classe in America (Alegre, pp. 561, euro 24), tradotta e curata in modo superbo da Andrea Olivieri, che di Adamic aveva già fatto il protagonista del suo «quasi romanzo», come lui stesso lo definisce, Una cosa oscura, senza pregio.

«DYNAMITE» RACCONTA la guerra di classe negli Usa dal 1877 ai primi anni ’30. Non «lotta» ma vera e propria guerra: nel Paese della Libertà lo scontro fu subito violentissimo e armato, da una parte e dall’altra, anche se Adamic non si stanca di ripetere che la violenza operaia, mai negata, era una reazione alla disperazione, allo sfruttamento feroce e alle aggressioni non solo dello Stato ma anche degli eserciti privati, a partire dalla Pinkerton, che i padroni misero da subito in campo per reprimere ogni insorgenza operaia. La dinamite in questione non è un’allegoria ma uno strumento ampiamente adoperato nei conflitti dell’epoca, a partire dalle azioni dei Molly Maguires, associazione segreta e terrorista dei minatori irlandesi, e dalla insurrezione del 1877, partita dalla rivolta dei lavoratori delle ferrovie, poi dilagata.

Il racconto di Adamic non è un libro di storia: manca della precisione puntigliosa e del lavoro d’archivio necessari per renderlo tale. L’autore, inoltre, non esita se del caso a inventare qualcosa, come farà anche nella successiva autobiografia Laughing in the Jungle, fingendosi protagonista in prima persona di vicende che conosceva invece solo attraverso testimonianze altrui. Esemplare da questo punto di vista il caso dell’ammutinamento della nave «Oskawa», che sulla base del libro di Adamic sarebbe stato ripreso anche da Brecht e che l’autore racconta come se avesse fatto parte della ciurma.

È UN ESPEDIENTE narrativo adoperato per centrare un obiettivo che è giornalistico e narrativo, non accademico: restituire il clima, le passioni, la realtà quotidiana di uno scontro di classe di insuperata durezza, molto più spietato che non sull’altra sponda dell’Atlantico. L’autore mira a coinvolgere oltre e più che a informare ma accompagna al racconto analisi lucide spesso di sorprendente attualità ancora oggi.

Adamic non fa sconti alla «destra operaia» rappresentata soprattutto dalla Afl (American Federation of Labour) fondata e guidata dal sigaraio nato in Inghilterra Samuel Gompers. Indica i limiti dei suoi dirigenti, animati da valori non diversi da quelli degli stessi padroni, e della sua visione, centrata sul sindacato «di mestiere» e sulla difesa degli operai qualificati, i Journeymen, che ne costituivano il nerbo. Anche a scapito delle fasce più deboli, composte soprattutto da immigrati e operai dequalificati. La critica non gli impedisce però di registrare con piena partecipazione gli attacchi padronali durissimi di cui anche la Afl fu fatta oggetto e di giustificare dunque la reazione difensiva, spesso a colpi di candelotti di dinamite.

Non è per moralismo, dunque, che il futuro scrittore segnala il rischio di una tendenza che segnalava e descriveva sul nascere: la scelta di ricorrere alla criminalità organizzata, al racket, per rispondere colpo su colpo agli attacchi padronali. Adamic capisce e condivide la necessità di colpire duro, con i pugni ma anche con le pistole e le bombe, e di affidare il compito a una manovalanza che non potesse essere fatta risalire al sindacato stesso, in particolare dopo lo scandalo McNamara. I fratelli McNamara, John e James, erano militanti accusati di due attentati tra i quali la distruzione della redazione del Los Angeles Times, il primo ottobre 1910, con venti vittime e diversi feriti.

DIFESI STRENUAMENTE dalla Afl, decisero di confessare a metà processo e il colpo fu micidiale. Da quel momento le Unions iniziarono a ricorrere sempre più spesso al racket per fronteggiare gli eserciti privati padronali. Il prezzo era esoso: era l’infiltrazione di Cosa Nostra, che ancora nessuno immaginava quanto fosse organizzata, nei sindacati e nella gestione lucrosissima dei fondi sindacali. Adamic profetizza con la precisione di un veggente l’esito devastante di quella pur comprensibile deriva.

Le simpatie dell’autore vanno tutte all’altra anima del sindacato americano, agli wobblies, i militanti degli IWW (Industrial Workers of the World), l’organizzazione nata nel 1905 dal fragoroso Big Bill Haywood, da Joe Hill ed Elizabet Gurley Flynn, la «Rebel Girl». Adamic ne condivide tanto il progetto di un solo sindacato non di mestiere ma articolato per linee industriali, «One Big Union», quanto la visione rivoluzionaria, radicalmente alternativa al capitalismo. L’esame della diversa composizione di classe della Afl e degli Iww, i cui militanti erano per lo più operai immigrati e dequalificati, giovani e spesso vagabondi hoboes, è tanto acuminata e lucida che potrebbe riadattarsi con pochissime differenze a quanto si sarebbe verificato oltre trent’anni dopo anche in Italia, con l’esplosione di una rivolta operaia innescata proprio dagli operai dequalificati e immigrati dal Sud. L’opposto del Journeyman che costituiva anche da noi la spina dorsale del tradizionale Movimento Operaio.

Dynamite è però un libro prezioso perché non parla solo di storia e preistoria ma anche del presente. Nella bella postfazione, quasi un capitolo aggiuntivo al suo «quasi-romanzo» su Adamic, Olivieri rintraccia una per una le somiglianze tra la situazione attuale e quella descritta nel libro, e sono moltissime. Lo squarcio sul presente e sul futuro va però anche oltre quelle somiglianze. Adamic passa al vaglio le differenze tra la guerra di classe negli Usa e la lotta di classe in Europa ma quel che risalta, osservando oggi quelle due realtà, è l’assenza negli Usa della mediazione politica, invece onnipresente nel Vecchio Continente. Quel che rende lo scontro negli Usa di inizio XX secolo così frontale, e dunque così estremo, è proprio l’assenza di quella mediazione e peraltro se a lungo si è ritenuto a torto che negli Usa non ci fosse stato scontro di classe è proprio per la mancanza, poco comprensibile per la sinistra europea, della gestione e della mediazione politiche. Una condizione che oggi è norma ovunque, probabilmente non passibile di recupero o rifondazione, nella quale gli Iww provarono a indicare una strada che è a tutt’oggi pionieristica.

LOUIS ADAMIC, inoltre, spia la nascita della fabbrica automatizzata fordista nel momento del suo emergere e chiarisce subito la sproporzione che determina nei rapporti di forza tra padronato e lavoratori, con l’offerta che, in virtù dell’automazione, sopravanza di molto la domanda. Quel processo è stato portato alle estreme conseguenze dalla rivoluzione postindustriale degli anni ’80, in una misura che non era immaginabile neppure per l’osservazione puntuale di Adamic. La descrizione della guerra di classe negli Usa di un secolo fa diventa così panoramica sullo scontro di domani e sulla sua posta in gioco: la capacità e la forza per uscire dalla società del lavoro oppure la prosecuzione dell’attuale assetto neoschiavistico dovuto proprio a una gestione tutta «padronale», in termini tanto di profitto quanto di potere, di quella rivoluzione.