Chi ha seguito il corso delle guerre che negli ultimi dieci anni si sono combattute in Siria, lungo la sanguinosa parabola che dalla militarizzazione dello scontro politico ha visto arrivare il Califfato, l’intervento russo e le invasioni turche, non si stupisce di vedere Putin agire in Ucraina ben oltre quanto potrebbe suggerire lo stretto calcolo razionale di costi e benefici.

Il leader russo ha costruito a lungo questo momento, perlomeno dal giorno in cui, diventato premier grazie a oscuri episodi, come prima mossa alzò la paga dei militari russi dispiegati all’estero, così che non avessero nulla da invidiare ai commilitoni occidentali. Putin da sempre agisce secondo principi di restaurazione dell’ordine politico, riflettendosi in modo sempre più spregiudicato nella gloria imperiale russa. Oggi i suoi blindati calpestano con disprezzo la Mala Rossia, inseguendo l’aspirazione a tornare Grande Potenza, status che l’impero zarista conquistò con il controllo delle coste del Mar Nero.

NON È FORSE UN CASO che l’invasione della nazione-sorella sia lanciata all’indomani del giorno che celebra i lavoratori delle agenzie di sicurezza dello stato. Una festa che di sovietico ha decisamente molto poco. L’appello del presidente ucraino Zelenski ai cittadini europei «con esperienza di guerra», l’ordine di difendere la patria casa per casa impartito al suo popolo, ci dicono quanto lontani ci troviamo – contrariamente a quanto ci si potrebbe forse aspettare da un popolo coeso e sicuro di sé – rispetto al fare di necessità virtù attraverso la prassi di una lotta di liberazione non-violenta che si appelli alla solidarietà internazionale.
Idea che pure ha avuto corso, in Ucraina, al tempo delle cosiddette rivoluzioni colorate. Al tempo l’obiettivo era il rovesciamento pacifico del potere attraverso un’ampia base di mobilitazione che si dimostrasse capace anche di contagio attraverso i confini: una rivolta che accendesse, con il proprio esempio, la scintilla anche nei paesi fratelli.

CERTO, GUARDANDO alla Russia di oggi, non è semplice manifestare il dissenso: chi mostra la bandiera ucraina all’università viene portato via dalla polizia. Tantomeno è facile scendere in strada, dopo che le forze speciali lo scorso anno hanno spazzato via l’intero movimento di protesta legato al leader oppositore Navalny.
Manifesta soprattutto l’intelligentsia, qualche figura prominente del mondo della cultura e delle arti. Eppure, tolta la Cecenia di Kadirov – che mette in mostra diecimila «volontari» per le operazioni speciali di Putin – è significativa nel paese l’assenza di manifestazioni di fervore nazionalista.

Il fatto che ci troviamo davanti a un crimine – l’invasione militare decisa da Putin – non azzera la politica. Riconoscere l’esistenza di un’aggressione non esaurisce gli schemi di lettura del reale, se si rifiuta la piatta idea che la politica internazionale, sia riducibile a «geopolitica», e si appiattisca alla capacità di «vendere la minaccia» o «vendere la vittima» alle opinioni pubbliche.
Da questo punto di vista, la storia recente è tutt’altro che priva di gravi abbagli. Ricordiamo, all’inizio delle guerre jugoslave, le voci radical-democratiche nostrane esibire con orgoglio l’uniforme croata, difendendo i cosiddetti combattenti per la libertà, quei campioni dei diritti umani che pochi anni dopo avremmo trovato alla sbarra per crimini di guerra davanti al Tribunale dell’Aia.

NESSUNO PUÒ DIRE se siamo all’inizio di un nuovo ciclo di guerra. Di certo sappiamo – e i lunghi anni di guerra in Siria ce l’hanno ricordato, che il protrarsi di un conflitto armato tende a coinvolgere un’intera regione, iniziando dai vicini.
Ci sono le masse di rifugiati, il «rafforzamento dei fianchi di difesa», c’è l’impatto economico, c’è uno slittamento nei toni e nelle rappresentazioni nel dibattito pubblico. Il fatto che la Polonia, stato membro dell’Alleanza Atlantica al pari dell’Italia, abbia rotto gli indugi ed esibito un proprio convoglio di munizioni per artiglieria passare il confine ucraino segnala una forma di interferenza che troverà Mosca ostile e con ogni probabilità impegnata a fermare in ogni modo. In una guerra protratta guidata da milizie paramilitari, non è irrealistico pensare che chi ha interesse per un’escalation orizzontale farà di tutto per creare incidenti e istigare punti di non ritorno, tanto sul piano domestico quanto su quello internazionale.

QUANTO DURERÀ, al di qua della nuova cortina di ferro, il compattamento politico che oggi vede sfumare drasticamente differenze che fino a ieri portavano i leader delle destre nostrane a competere per chi gonfiava più le vele davanti al vento sovranista, l’ideologia pret-a-porter che spira da Est, coniata dai burattinai di Putin?
E fino a quando i leader est-europei campioni di anti-liberalismo e anti-europeismo resteranno allineati con i leader europeisti? I nazionalisti, si sa, vanno fra loro d’accordo fino a quando non iniziano a farsi la guerra, combattendo sul corpo delle popolazioni.

L’IDEA DI UNA PACE LIBERALE, una pace separata fra democrazie, mantiene parte del suo appeal ideologico, quale argine davanti ad autocrati e arbitrio autoritario. Tuttavia, non sfugge a nessuno come la democrazia su scala globale attraversi un periodo di difficoltà, con significativi punti di arretramento a diverse latitudini.
Cosa rimane del pensiero liberale sulla guerra, quando si entra in una fase che per molti versi, tanto sul versante economico quanto su quello politico, presenta i tratti di era post-liberale? Forse nelle circostanze odierne vale la pena recuperare un filo della riflessione attorno al rapporto fra guerra e cambiamento sociale.

Se non a rileggere le tesi di Zimmerwald, la guerra in Ucraina può offrire l’occasione per interrogarsi sul significato e la possibilità dell’internazionalismo oggi. Nella sua semplicità, il discorso di condanna di ogni nostalgia imperiale pronunciato dall’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite qualche giorno fa, può fornire un punto di partenza lontano dalle nostre ossessioni per geopolitica e ossessioni identitarie nazionali.