Al Shabab torna a colpire a meno di due settimane dalla strage degli studenti nel campus di Garissa, in Kenya, ma stavolta lo fa nella “sua” Somalia. Al cuore del potere somalo, nella capitale Mogadiscio. E l’obiettivo scelto, come a Garissa, ha ancora una volta a che vedere con la sfera dell’istruzione. L’attacco di ieri infatti era diretto contro il Ministero della Cultura e dell”Università, il cui edificio si trova nel centralissimo distretto K5, adiacente al palazzo che ospita il Ministero degli affari esteri e ad altre strutture governative.

La tattica utilizzata è quasi un marchio di fabbrica del gruppo jihadista somalo, considerato organico alla galassia qaedista: un’autobomba lanciata contro il muro esterno del compound da un kamikaze ha aperto la strada all’irruzione di un commando che ha dato vita a un furioso scontro armato con le forze di sicurezza all’interno. Il bilancio diramato dal portavoce del governo Ridwan Abdiweli, ancora provvisorio, parla di 17 morti: otto civili, un militare somalo, un militare dell’Unione africana e sette assalitori. Sheikh Abdiasis Abu Musab, portavoce di al Shabab, ha rivendicato l’azione con una telefonata alla Reuters. Proprio mentre un tweet del ministro dell’Interno Abdirizak Omar comunicava che le forze speciali somale avevano ripreso il controllo della struttura, che ospita anche il ministero del Petrolio, liberando «tutte le persone che si trovavano all’interno».

A suon di attentati i jihadisti insistono nel chiedere il ritiro immediato dal territorio somalo di tutte le truppe straniere, a cominciare da quelle di Etiopia, Kenya e Uganda inquadrate nella missione di peacekeeping dell’Unione africana, denominata Amisom, composta da ben 22 mila uomini e alla quale partecipano anche Djbouti e Burundi. Al sostegno dell’Onu e all’intervento delle truppe inter-africane il governo somalo attualmente in carica deve del resto la sua stessa esistenza.

Lo scorso 28 marzo i miliziani di al Shabab avevano stretto d’assedio l’hotel Maka al-Mukarama, sempre a Mogadiscio, residenza prediletta dagli uomini d’affari e dall’establishment politico (tra le vittime anche l’ambasciatore somalo in Svizzera), per il semplice motivo che si trova su un’arteria particolarmente sorvegliata, che unisce il palazzo presidenziale all’aeroporto. Per questa ragione l’albergo, nella successiva rivendicazione, è stato equiparato a una «base governativa». Dopo due giorni di assedio sono dovute intervenire le truppe più scelte di cui dispone attualmente la Somalia, quelle che hanno ricevuto un addestramento specifico dagli istruttori statunitensi. Alla fine del raid libera-tutti si sono contati 14 morti e decine di feriti.

Ma la più clamorosa e sanguinosa tra le azioni recenti, seconda per il numero di vittime solo all’attentato contro l’ambasciata Usa di Nairobi del 1998, che causò oltre duecento morti, resta quella condotta lo scorso 2 aprile nel campus universitario di Garissa, in territorio kenyano, dove i miliziani hanno barbaramente ucciso 148 studenti, colpevoli solo di non saper rispondere a domande che riguardavano il Corano. All’indomani della strage si è però aperta una vistosa crepa nel fronte della “fermezza”, con l’ex premier kenyano Raile Odinga, leader dell’opposizione, che si è detto favorevole al ritiro delle truppe di Nairobi dalla Somalia. Secondo Odinga gli Stati Uniti dovrebbero aiutare il Kenya a uscire di scena in modo onorevole dal conflitto somalo.

Per tutta risposta l’ambasciata statunitense in Kenya ha eliminato il nome di Odinga dalla lista di personalità che incontreranno Obama durante la visita che il presdiente Usa ha in programma per il prossimo luglio.